La cultura politica meridionale
Mauro Fotia
Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi
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In ogni caso, dalle vittorie elettorali del 1994 e del 2001
scaturisce per il polo di centro-destra la tentazione di utilizzare le rendite
politiche relative. Cedendo ad ambizioni smodate, non di rado assolutamente
sconcertanti. Sotto questo profilo possono distinguersi tre momenti. Il primo si
identifica con un governo venuto fuori dalla vittoria del 1994, che è tutto un
inconsulto, velleitario succedersi di attacchi alle istituzioni, al fine di
appropriarsene, secondo un modello di governo di partito cinicamente
interpretato e grossolanamente gestito. I leader del governo di
centro-destra, dimenticando la pazienza e le astuzie sottili del doroteismo, cui
pur si ispirano, sposano piuttosto il metodo dell’arroganza e della mano
pesante del craxismo e tentano con ogni sforzo di collocare i loro uomini nelle
sedi decisionali e gestionali, senza preoccuparsi mai di dissimulare la volontà
di sfruttarne le possibilità predatorie, come avrebbe detto Weber. Oltretutto,
estremamente significativa appare la paradossale offerta del ministero degli
Interni, avanzata in sede di formazione del governo, ad Antonio Di Pietro, il
magistrato più impegnato nelle indagini che coinvolgevano la Fininvest e la
Edilnord, società controllata da suo fratello; offerta configurante, tra l’altro
una tentata “violazione dell’indipendenza della magistratura non con
minacce, ma con lusinghe”.
La vittoria del 1994, è resa possibile da un cartello a
geografia variabile che vede FI al Nord alleata con la lega (Polo delle
libertà), e al Sud con il Msi - An (Polo del buongoverno).
Nelle regioni meridionali, infatti, lo schieramento di
centro-destra, pur registrando una notevole presenza di FI ed un’azione
penetrativa delle due piccole formazioni di ispirazione clerico-moderata, il Ccd
e il Cdu, trova il suo architrave in An, partito di antico insediamento
territoriale. Fa eccezione la Sicilia, dove il grosso delle forze dorotee e
craxiane, tradizionalmente sorrette dalla criminalità organizzata, si schiera
per FI, la quale può raccogliere perciò i consensi di una folla sterminata di
fuoriusciti, di ex, di post, di traghettati e riciclati di ogni tipo,
indirizzati da una vecchia classe politica di cui una delle più significative
espressioni è rappresentata dai parlamentari regionali, in gran parte
inquisiti, e taluni perfino arrestati.
Mentre al Nord, insomma, il centro-destra, per via della
preponderante affermazione di FI, appare l’espressione della media e piccola
borghesia degli affari e delle professioni, ancorata ai miti della competizione
liberale e del successo sfrenato, alimentati da una sempre più pervasiva
simbologia massmediale, al Sud, in conseguenza della prevalente rappresentanza
realizzata da An, tende a cavalcare lo statalismo in soccorso dei ceti medi,
nonché l’unità nazionale in chiave organicista.
I ceti medi meridionali, del resto, nei decenni di
assistenzialismo doroteo, crescono come ceti protetti. Mentre nella seconda
metà degli anni Ottanta, l’unificazione dei mercati spinge le classi
dirigenti del Centro-Nord a far avvertire l’esigenza di una competizione con l’estero
non solo agli imprenditori ma anche ai lavoratori autonomi, nel Sud si ha una
specie di effetto serra, legato alla spesa pubblica, al controllo del territorio
da parte dei partiti (di governo e di opposizione) e della criminalità
organizzata, al regime clientelare delle licenze e delle concessioni, specie nei
settori delle opere pubbliche e delle attività di servizio.
Il secondo momento è segnato dall’espulsione dal governo e
palesa l’incapacità delle forze politiche in questionedi stare all’opposizione,
assumendone il relativo ruolo. Per questa incapacità, non esitano a scegliere
la strada dell’adescamento e degli accordi di potere con gli avversari, in
primo luogo, con il Pds. Il tutto secondo il classico modulo
doroteo-consociativista del doppio binario: della lusinga e della minaccia,
della carezza e della pugnalata. E, così, mentre cercano accordi, preparano un’impressionante
campagna investigativa sulla vita privata dei leader del centro-sinistra
a partire da quelli piedissini, al fine di dimostrare la loro non “diversità”
dai personaggi del centro-destra e la loro non estraneità ai privilegi del
potere. Oppure, mentre in seno alla Commissione Napolitano discutono sul nuovo
assetto da dare alle televisioni, si impegnano nella campagna referendaria a
difesa dei network privati, per poi battersi a favore del passaggio di
intere équipe dalla televisione di Stato a quella privata, sì da far
parlare con indovinato sarcasmo di tentativi di “lottizzazione armoniosa”.
Nei sei anni in cui rimane all’opposizione, FI, smentendo
tutte le previsioni di una sua rapida dissoluzione, rafforza e stabilizza un
consenso che nel 1999 la porta ad essere il primo partito italiano e nel 2001 a
riprendere la guida del Paese. Tanto è dovuto a un lavoro organizzativo di
forte impegno e alla capacità di Berlusconi di ricostruire su una base più
compatta la coalizione di centro-destra, ora denominata Casa delle libertà. Ma
è anche da ascrivere ai gravi errori compiuti dalle forze politiche di
centro-sinistra. A cominciare dagli equivoci alimentati da D’Alema in seno
alla Commissione Bicamerale per le riforme e dalla sua assunzione della premiership
dopo l’assurda caduta del governo Prodi [1],
passando per le carenze comunicative con l’elettorato, per quanto concerne i
risultati raggiunti dai governi dell’Ulivo presieduti da Prodi, D’Alema e
Amato [i], e giungendo alla mancata ripetizione dell’accordo di
desistenza con Rifondazione Comunista (che era stato determinante per la
vittoria nel 1996), nonché alla perdita di una componente di peso, come l’Italia
dei Valori di Antonio Di Pietro [i]. Come che sia dal
ritorno al governo nel 2001 prende avvio il terzo dei momenti dei quali stiamo
parlando.
13. Il berlusconismo
Ma per cogliere in pienezza lo stato di devastazione nel
quale versa la cultura politica meridionale è necessario da ultimo soffermare l’attenzione
su quella “dottrina” che sembra averla egemonizzata per intero, vale a dire
sul berlusconismo.
La solida maggioranza conquistata in entrambi le Camere nelle
elezioni del 2001 consente peraltro a quest’ultimo di definirsi ed esprimersi
in tutte le sue componenti e di cominciare subito a dispiegare la sua azione
eversiva nei confronti del sistema politico.
Intendo qui per berlusconismo una visione politica
identificata dai seguenti cinque tratti: 1) l’individualismo sfrenato, 2) l’aziendalismo
di stampo padronale, 3) il lobbismo, 4) l’autoritarismo, 5) il populismo.
L’individualismo berlusconiano non ha alcun legame con
quello d’origine liberale storicamente saldato all’affermazione delle
libertà fondamentali dell’uomo moderno. Esso non è altro che un mero egoismo
possessivo, i cui simboli sono gli innumerevoli oggetti di lusso personali,
usati con una pacchianeria insuscettibile, nonostante tutti gli sforzi, d’essere
esibita come stile [i].
L’aziendalismo introiettato dalla Fininvest e da questo
trasferito nell’intera vita politica, è una sottocultura creata per esaltare
il fondatore dell’impresa come padrone - eroe e rafforzare i valori che
uniscono gli operatori a tutti i livelli alla sua persona. Sicchè, come nel
mercato economico gli altri imprenditori sono portatori di contro-valori
aziendali e dunque sono nemici da eliminare, così nel mercato politico le forze
avversarie, in quanto contestano i valori dominanti della squadra vincente, sono
da annientare. Le parole d’ordine delle aziende Fininvest sono: “possedere
una mentalità vincente”, “essere aggressivo” [i].
Il lobbismo appare un’ovvia conseguenza. Il potere
berlusconiano, configuratosi come una lobby estremamente potente fin dall’inizio,
col governo del 2001 manifesta senza più remora alcuna come il modo di essere e
di agire lobbistico sia ad esso intrinseco. Di fatto, la forza pressoria
berlusconiana, in seno alla benestante società italiana, si pone nel punto d’intersezione
tra gli onesti mortificati e i corrotti sfuggiti o comunque sopravvissuti al
bisturi dei magistrati di Mani Pulite. E agli uni e agli altri addita libere
praterie sulle quali galoppare al seguito dei cavalieri che aprono il corteo e
indicano la direzione di marcia. Al contempo consiglia il silenzio sul conflitto
d’interessi, che riguarda non solo il monopolio delle reti televisive, private
e pubbliche, ma anche i campi delicatissimi della giustizia ordinaria e
amministrativa, gli ambiti decisionali delle Authorities, le materie del
fisco e della legislazione sanitaria [i].
Una gestione siffatta del potere postula naturalmente una
visione decisionista, anzi, autoritaria dello Stato e dei suoi organi. Visione
di cui elementi costitutivi essenziali sono l’inclinazione verso il comando
unico, l’idiosincrasia verso le regole e le istituzioni plurali, la preferenza
verso un esecutivo forte ed un parlamento come mera camera di registrazione
delle sue decisioni, l’intolleranza verso gli avversari politici e chiunque,
in generale, si oppone o soltanto la pensa diversamente.
Per questo tutte le volte in cui Berlusconi o i suoi uomini
parlano di riforme istituzionali, ricorre in essi l’auspicio di una maggiore
concentrazione di potere nelle mani del capo del governo, sotto la specie del
premierato rafforzato o del presidenzialismo o semipresidenzialismo [2].
La guerra dichiarata alla magistratura, poi, ritenuta
politicizzata e alleata con la sinistra per il semplice fatto di processare per
gravi reati comuni il presidente del consiglio e altre persone a lui legate da
rapporti ieri di affari, oggi di potere, dà l’ultimo sigillo al fascismo
strisciante nel quale, in definitiva è già sfociato il berlusconismo. Il
tentativo di subalternizzare all’esecutivo il pubblico ministero, di fare
della Corte di Cassazione una corporazione privilegiata, scissa dal resto del
corpo giudiziario e alleata del governo, le leggi sul falso in bilancio, sulle
rogatorie internazionali, sul legittimo sospetto, oltre a mostrare la precisa
finalità di influire sui processi in corso che interessano il capo del governo
e altri leader del suo partito, confermano, almeno crediamo, questa
nostra interpretazione [3].
L’autoritarismo berlusconiano, d’altro canto, non può
che essere di natura populistica. Non soltanto per la sua ostentazione
compiaciuta, senza un minimo di pudore per la propria inadeguatezza, e per il
soddisfatto disprezzo nei confronti di ogni pensiero o posizione complessa. Ma
anche e soprattutto per il suo bisogno di parlare al “popolo” direttamente e
di assumere l’impegno a soddisfarne le sue aspettative, a prescindere dalle elite
parlamentari e da ogni altra istanza mediatrice. D’altronde, «l’uso stesso
del termine implica che il popolo è costituito da numerose persone e dalla
maggioranza delle persone. E ciò ha risvolti concreti: “esse” sono numerose
e questo conferisce maggiore legittimità a chi parla a loro nome, procurandogli
un potenziale elettorato che, se schierato interamente a suo favore, può
debellare qualsiasi forza gli si contrapponga» [i]. Nelle visioni populiste berlusconiane, inoltre, il “suo” popolo è
rappresentato come una unità monolitica, priva di divisioni o conflitti, anzi
solidale, come un’entità completamente formata e dotata della piena coscienza
di sé. Una coscienza che la porta a consegnarsi totalmente nelle mani di un leader
carismatico, ritenuto capace di assumere l’interezza dei suoi destini.
Niente di più appropriato per un campione ghignante della
spregiudicatezza politica, qual’è appunto Berlusconi. Dopo aver praticato le
modalità comunicazional-mediatiche più efficaci per vendersi al meglio, questi
avvia rapporti dialogici diretti con gli strati popolari, utilizzando capacità
istrioniche senza precedenti. A ragione, quando, anche nei riguardi dei suoi
colleghi stranieri, la megalomania lo ha portato a pronunciare frasi quali “ai
vertici internazionali sono il più preparato di tutti”, “molti leader
politici stranieri mi sono ostili perché invidiosi del mio successo nella vita”,
taluno ha invitato a fare ricorso alle categorie della naïveté o della
psicopatologia politica [4].
Rimane tuttavia il fatto che il suo cinguettante rivolgersi
alle masse secondo siffatti moduli è riuscito sul piano nazionale, da una
parte, a demonizzare i suoi avversari, dall’altra, a dare una qualche
identità ad un elettorato assai eterogeneo, che, altrimenti, sarebbe rimasto
una massa amorfa e a presentarne una versione idealizzata, come si trattasse del
suo “popolo eletto”.
Nel Mezzogiorno, in particolare, qualificandosi ulteriormente
come “un’implacabile pedagogia della volgarità”, affidata ad imbonitori
ed arringatori da fiere strapaesane, ha avviato un processo corruttivo del
costume sì diffuso ed un’azione erosiva della cultura politica sì pesante,
da rendere in futuro estremamente ardua un’azione di ricostruzione
etico-politica generale.
I meccanismi che creano e sorreggono la fedeltà dell’elettorato
meridionale ai partiti del centro-destra ed in particolare a FI, negli otto anni
di opposizione si irrobustiscono. Si rafforzano, infatti, i rapporti tra nuovi
patroni e vecchi clienti. Sia perché l’azione meridionalistica del
centro-sinistra negli ultimi dieci anni perde ogni giorno più incisività e
significato. Sia perché gli elettori con livelli di scolarità più bassa,
dovunque più vicini a FI, nel Sud predominano. I metodi clientelari e le
suggestioni populistiche, in pratica, conquistano non solo la medio-piccola
borghesia urbana e la classe media impiegatizia, ma anche taluni strati
collocati ai livelli più bassi della piramide sociale. Si pensi semplicemente
alle casalinghe [i].
L’“amorale civica” [5], che nel Sud ha radici
antiche, riceve dalla vittoria di cui parliamo stimoli e incitamenti verso il
rafforzamento di quel mixage di individualismo, particolarismo,
familismo, clientelismo, trasformismo, che costituisce l’essenza della
politica meridionale. Per cui credo non sia paradossale affermare che la
concezione “proprietaria” dello Stato, tipicamente berlusconiana, secondo la
quale lo Stato non è nient’altro che uno strumento della politica, non trovi
difficoltà a sposarsi con la visione dello Stato nemico, propria della mafia [/i].
Accettando tuttavia come consequenziali due annotazioni.
Prima. Sta qui la chiave di lettura di un’operazione non riuscita neppure alla
Dc, la conquista, cioè, da parte della Casa delle libertà, ed in primo luogo,
di FI, di tutti i seggi (non pochi significativamente coperti da avvocati e
magistrati) siciliani. Seconda. Da qui bisogna partire altresì per cogliere le
ragioni per le quali i conti tra le due soggettività politiche - FI e mafia -
rimangono aperti, come aperti rimasero per decenni i conti tra la mafia e la Dc
di Andreotti. Il noto proclama letto dal carcere da Leoluca Bagarella é rivolto
alle “varie forze politiche”, che, com’egli denuncia, hanno “strumentalizzato
(...) ed usato come merce di scambio” i boss detenuti. I retroscena, peraltro,
possono rinvenirsi nelle motivazioni, depositate il 23.6.2001, della sentenza
con cui la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta condanna trentasette
persone per la strage di Capaci. Esse, infatti, dedicano un capitolo a “I
contatti tra Salvatore Riina e gli Onorevoli Dell’Utri e Berlusconi”, nel
quale, dopo aver provato l’esistenza di un “rapporto fruttuoso quanto meno
sotto il profilo economico”, si afferma: “(nel 1992) il progetto politico di
Cosa Nostra sul versante istituzionale mirava a realizzare nuovi equilibri e
nuove alleanze con nuovi referenti della politica e dell’economia”. Cioè a
“indurre alla trattativa lo Stato ovvero a consentire un ricambio politico
che, attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di
cui Cosa Nostra aveva beneficiato”. Ancora più in là, nell’analisi, si
spinge il gip di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, quando, il 3 maggio 2002
archivia le posizioni di Dell’Utri e Berlusconi fino a quel momento indagati
per concorso nelle stragi siciliane. Il giudice Tona, dopo aver esaminato per un
anno le carte dell’inchiesta, rileva: “Gli atti del fascicolo hanno
ampiamente dimostrato l’esistenza di varie possibilità di contatto tra gli
uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in
vario modo dagli odierni indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in
considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere
stati individuati dagli uomini dell’organizzazione quali eventuali nuovi
interlocutori”.
Ma non solo in Sicilia vi sono magistrati convinti che Cosa
Nostra guardi principalmente a Forza Italia per tentare di risolvere i suoi
guai. Il 14 novembre 1998 anche il gip di Firenze Giuseppe Soresina giunge a
queste conclusioni, quando archivia le indagini a carico di Berlusconi e Dell’Utri
sulle bombe di mafia dell’estate 1993. Il giudice nel suo decreto parla di “obiettiva
convergenza degli interessi politici di Cosa Nostra rispetto ad alcune
qualificate linee programmatiche della nuova formazione:art.41 bis, legislazione
sui collaboratori di giustizia, recupero di garantismo processuale asseritamente
trascurato dalla legislazione dei primi anni ’90”. E ricorda che, pur non
essendo state reperite prove sufficienti per ordinare un processo, dagli atti
emerge come Berlusconi e Dell’Utri abbiano “intrattenuto rapporti non
meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma
stragista” [/i].
L’amministrazione della vittoria, in conclusione,
attraverso il collaudato metodo feudale dei benefici e dei territori assegnati
ad una vasta clientela di vassalli e valvassori, avvia un processo di
volgarizzazione della cultura politica meridionale, facendo leva sui mai
tramontati potentati dorotei. Quest’ultimi, convertitisi miserevolmente al
berlusconismo, immettono oltretutto nei suoi ranghi uomini, che, nella vecchia
Democrazia Cristiana, avrebbero occupato a stento le seconde e le terze file.
Mediocri impresari di una spregiudicatezza politica, che, inconsapevole della
povertà ideale e dello squallore morale che la sorreggono, ha la pretesa di
trasformarsi in egemonia; e che, nel frattempo, induce a piazzarsi a capotavola
con arroganza, imponendo il proprio stile ruspante e i propri valori “da
apparato digerente”.
[1] Cfr. M. Fotia, Debole come
una quercia. Il neoliberismo di sinistra, Dedalo, Bari, 1999, pp. 96-104.
[i] Itanes, Perché ha vinto il centro-destra, Il Mulino, Bologna,
2001, p. 170.
[i] Ibidem, p.171.
[i] P. Pellizzetti, Estetica berlusconiana, “Micromega”
2002, n. 4, p. 66. Una summa dell’incontenibile narcisismo di
Berlusconi è l’opuscolo “Una storia italiana”, Mondadori, Milano, 2001,
distribuito nelle case degli elettori.
[i] E. Poli, Forza
Italia, cit., p. 35.
[i] E. Scalfari, La lobby che blocca la
nostra democrazia, “La Repubblica”, 15.12.2002.
[2] Cfr. P.
Ignazi, La storia infinita della questione istituzionale, “Il Mulino”,
2003, n. 1. Sul secondo governo Berlusconi è utile vedere, inoltre, AA.VV.,
Il governo Berlusconi, Laterza, Roma-Bari, 2002.
[3] Radicalmente diversa, in quanto tutta centrata sulla
contrapposizione tra rafforzamento della magistratura e indebolimento della
classe politica nella stagione di Mani Pulite, è l’interpretazione di C.
Guarnieri, Mani Pulite: le radici e le conseguenze, “Il Mulino”, 2002,
n. 2, la quale prevede una, a dir poco, improbabile conclusione della vicenda:
“E quindi possibile, egli scrive, che, se il Polo riuscirà a consolidarsi al
governo, le tensioni di questo periodo siano destinate a lasciare il campo a
forme di convivenza e, in certi casi, di relativa collaborazione” (p. 231).
Più agganciata alla realtà è, invece, la tesi di I. Diamanti, Isolare
i giudici e fuggire da Milano, “La Repubblica”, 4.8.2002.
[i] P. Taggart, Il
populismo, Città Aperta, Troina (En), 2000, p. 153. Ma sul tema del populismo
v. anche Y. Meny-Y. Surel, Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna,
2001.
[4] P. Ignazi, L’intramontabile fascino del
populismo, “Il Mulino”, 2002, n. 1, p. 61.
[i] Itanes, Perché ha vinto il centro-destra, Il Mulino,
Bologna, 2001, III. Le casalinghe di Berlusconi.
[5] I. Diamanti, L’amorale
civica degli italiani, “La Repubblica”, 15/12/2002.
[/i] Per
quanto riguarda, in particolare, la presenza della criminalità organizzata nell’economia
e nella politica, v. M. Fotia, Mafia, in “Nuovo Dizionario di
Sociologia”,cit; M. Centorrino, Economia assistita da mafia,
Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 1994; D. Della Porta-A. Vannucci,
Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori, Il
Mulino, Bologna, 1994, cap. X. Mafia, politica e mercato negli scambi
corrotti.
[/i] Cfr. M. Santoro, Oltre lo Stato. Dentro la mafia.
Note per l’analisi culturale di una istituzione politica, “Teoria Politica”,
2000, n. 2.