La cultura politica meridionale
Mauro Fotia
Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi
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4. Clientelismo rurale e familismo
E veniamo alla prima manifestazione della cultura politica
meridionale postunitaria rappresentata dall’integrazione fra modelli
familistici e clientelismo contadino. Dall’incontro, cioè, delle due prime
forme di rifiuto che il Sud afferma nei confronti dello Stato nazionale. Per cui
classe dirigente e classe politica assumono l’esercizio delle loro attività
produttive, prestazioni professionali e culturali e partecipano alla gestione
del potere e delle istituzioni statali, nella misura in cui esse possono essere
utilizzate ad esclusivo vantaggio familiare o clientelare.
Il clientelismo, come qui viene assunto appare, in realtà,
un tessuto di rapporti personali a contenuto particolaristico, intercorrenti fra
un patrono e un cliente. La relazione patrono-cliente è anzitutto diadica e
perciò la sua formazione e conservazione dipende dalla reciprocità nello
scambio di prestazioni o favori; essa, inoltre, si instaura tra due parti di
differente status, ricchezza e influenza. In una transazione tipica, il cliente
attore di status basso, riceve favori materiali e servizi intesi a migliorare la
sua condizione di vita, mentre il patrono, attore di status alto, riceve
compensi meno tangibili, come servizi personali, segni di stima, deferenza o
lealtà, o servizi di natura direttamente politica come voti.
La relazione clientelare, infine, essendo di natura
strettamente personale è legata a dinamiche estremamente circoscritte e risulta
legata molto alla vicinanza di due attori [1]. Uno
dei problemi di maggior rilievo che il clientelismo meridionale postunitario
pone all’attenzione dello studioso è perciò quello dei suoi rapporti col
familismo.
Esso, in verità, rivela anzitutto e conferma le ragioni
stesse di quest’ultimo. Poiché, dopotutto, non è che la traduzione della
preminenza dei rapporti affettivi al di fuori dell’ambito familiare. L’assunzione
del comparaggio - di fatto avvertito come una quasi parentela - quale strumento
efficace adottato dall’uomo politico meridionale per confermare la certezza
del proprio elettorato, è uno dei tanti comportamenti che dimostrano il legame
tra clientela e familismo. Un uomo politico, raccontando le proprie esperienze
elettorali, potrebbe fornire dal principio alla fine prove molto significative
della validità di questa tesi. “Ciò significa, in altre parole, che anche
nei rapporti pubblici si ha la prevalenza dell’affettività, che si traduce in
ricerca di appoggi diretti e personali aventi le stesse caratteristiche dei
rapporti intrafamiliari” [i].
Naturalmente, le utilità che ne conseguono non appartengono
all’ambito sociale dei vantaggi a lunga scadenza, ma si riferiscono a una
momentanea gratificazione, di fonte extralavorativa, che si riferisce anch’essa
a un ambito familiare di riceventi. Questo è anzitutto da connettersi con le
caratteristiche della solidarietà interfamiliare, la quale è esclusivamente
temporanea, ha una durata, cioè, che equivale al tempo necessario per
soddisfare il bisogno che l’ha provocata. Il clientelismo conferma quindi il
familismo anche per gli aspetti della temporaneità del suo intervento. I tempi
brevi della gratificazione clientelare sono inoltre indifferenti ai tempi lunghi
delle strutture politiche.
A sua volta, l’apparente gratuità del beneficio concesso,
costituisce un vantaggioso investimento in termini di potere a favore dell’uomo
politico che lo dispensa [i].
Detto ciò, non va perso di vista che le strutture
concettuali familistiche sono assai più statiche rispetto a quelle clientelari.
E che, come tali, non riescono a prendere consapevolezza dei mutamenti
intervenuti nella società meridionale nel corso dei passaggi dagli Stati
preunitari allo Stato unitario fino al fascismo, ed in particolare, nei decenni
successivi alla caduta di quest’ultimo. Mentre al contrario tale
consapevolezza matura e s’appalesa nella cultura clientelare. In altri
termini, la transizione del Mezzogiorno dalla condizione di società
sottosviluppata a quella di società in via di sviluppo incide scarsamente sulla
sostanza del paradigma familistico, e invece, coinvolge e scuote in pieno quello
clientelare. Il quale, oltretutto, è costretto a prendere atto dei metodi nuovi
con i quali il sistema politico va via via atteggiandosi nei confronti delle
masse meridionali.
Ciò fa comprendere anche perché le strutture clientelari
possono mettere in atto, ove lo ritengano necessario, attività di manipolazione
della famiglia e della parentela. In questo caso la famiglia, la parentela e la
quasi parentela o comparaggio perdono il loro significato sacrale per dare
rilevanza piuttosto ai vincoli di rispetto e di riverenza, alla strumentalità
delle relazioni e ai loro aspetti materiali. Mentre una volta era manipolabile
soltanto il cliente, adesso diventa manipolabile anche il patrono. Ciò può
accadere soprattutto quando entrano in crisi i rapporti tradizionali e gli
equilibri loro connessi, fondati sulla reciprocità.
5. Clientelismo urbano
Altro problema o aspetto del clientelismo meridionale che
appare meritevole di approfondimento è il legame che lo unisce con l’assenza
di coscienza e azione collettiva. Un tale aspetto assume significato e portata
macropolitica, poiché affronta il rapporto tra forme clientelari e forme
politiche più organizzate, emergente dall’ambito dei contesti urbani
allargati e irrobustiti dai crescenti flussi migratori dalle campagne alle
città [2].
Sul punto, è utile tuttavia distinguere due momenti. Il
primo s’incontra e si fonde con la fase storica che vede tramontare
definitivamente nelle campagne istituti collettivi, come quelli delle terre
comuni, degli usi civici, del compascolo, che avevano assicurato alla loro
economia alcuni rilevanti tratti censitari. Per cui il rapporto notabili-clienti
che viene ad instaurarsi dentro i tessuti relazionali delle città del Sud
permane quello tradizionale, tutto centrato su forme di solidarietà verticale
ed opaco verso istanze ed impegni collettivi.
Del resto, i gruppi sociali e politici presenti nelle città
meridionali appaiono scarsamente sensibili verso le forme di mobilitazione
sociale o di solidarietà allargata e poco interessati a guidare le tensioni
provenienti dalle campagne. Le identità politiche urbane e le risorse da esse
scaturenti, in termini di capacità innovativa dei valori e delle forme
organizzative ed istituzionali, sono scarse.
Sicchè anche le rare volte in cui danno vita a nuove
opportunità di “acquisitività politica”, secondo l’espressione
weberiana, il loro successo è modesto.
Di certo, una qualche azione di rottura nei confronti di una
situazione siffatta, avrebbe potuto esercitarla il mercato in quanto fattore
della frantumazione dei rapporti particolaristici, con i suoi portati storici di
anonimato e di spersonalizzazione. Ma nel Mezzogiorno l’impatto del mercato,
nel periodo della formazione dello Stato unitario, non è avvenuto in modo tale
da garantire una completa razionalizzazione capitalistica. Lo sviluppo di una
classe media e della proprietà borghese, per molto tempo, non avvennero a spese
delle proprietà baronali, ma con la commercializzazione delle proprietà
ecclesiastiche. Di conseguenza non si ebbe la nascita di una classe di contadini
proprietari, e i rapporti sociali nel Mezzogiorno mantennero caratteristiche
semifeudali [i].
Se il mercato si manifesta incapace, lo Stato appare
inefficiente. Sicchè si delinea un vero e proprio sistema di incompatibilità
tra cittadini-clienti e istituzioni. Il clientelismo meridionale appare,
insomma, fortemente correlato ad una sfiducia da parte sia delle classi
subalterne, che di quelle dirigenti, verso lo Stato unitario. E sia classi
subalterne che classi dirigenti cercano di sfruttarlo per vantaggi personali.
Naturalmente nella ripartizione degli utili privilegiate risultano le seconde.
Dal punto di vista dello Stato, il clientelismo appare come una deformazione
delle sue istituzioni, una utilizzazione delle sue leve per fini particolari.
Dal punto di vista dei clienti, è soltanto una possibilità per acquisire dall’esterno
dei benefici aggiuntivi alla normale attività lavorativa. Può rappresentare
anche di più: l’unica possibilità di uscire dalla fatalità di una
condizione umana di miseria.
In concreto, i tentativi di strappare dei benefici scelgono
sempre la strada del ricatto e dello scambio politico, nel quale la merce da
scambiare è il voto. Il fatto peraltro che gli elettori stessi o clienti
intendano il voto come una merce è a sua volta imputabile a una diretta
responsabilità degli uomini politici. Essi hanno fatto loro capire i vantaggi
del clientelismo mediante un messaggio completo e appropriato, il cui contenuto
è la promessa di un favore personale e immediato.
Ed è anche attraverso tale tipo di messaggio che si pone il
divario fra le istanze collettive dell’ideologia politica e le reali proposte
operative per il trionfo di quell’ideologia, in quanto si tratta di un trionfo
che si deve incarnare in una persona, con cui si possono regolare direttamente i
conti. L’ideologia diventa sempre di più una copertura formale pubblica con
cui si riesce meglio a nascondere i conti legati a persone precise [i].
6. Clientelismo di massa
Il secondo momento in cui si esprime l’assenza di coscienza
collettiva ha inizio con la comparsa del clientelismo di massa (mass
patronage) [i]. Di quella nuova forma clientelare, cioè, nella quale l’erogazione
delle risorse pubbliche si rivolge non più a singole persone ma ad intere
categorie o gruppi sociali o ad ampie quote di popolazione. E perciò ha bisogno
di organizzarsi in istituzioni e formazioni burocratiche, che facciano da
tramite tra lo Stato ed i gruppi stessi.
Il mass patronage presenta per questo una sua parvenza
di modernità. Tant’è che lo si incontra anche presso società avanzate che
hanno realizzato la prima industrializzazione ed una completa penetrazione del
mercato nelle dinamiche produttive e distributive.
Dal canto loro, la formazione dei partiti di massa e l’introduzione
del suffragio universale non tardano a fornire un humus non poco
favorevole ad una sua affermazione.
Già di per sé la forma - partito può esistere là dove
punta ad elevarsi al di sopra dell’occasionalità e dell’individualità
delle adesioni e delle prestazioni, “affermandosi come una entità astratta
capace di dettar legge ai consociati che non potevano imporre ad essa le
proprie volontà, se non trasformandole in momenti decisionali dell’istituzione”
[i]. Quando, poi, ai partiti di notabili succedono
i partiti di massa, la pretesa della forma-partito di pesare in quanto tale
sugli scambi politici cresce.
Conquistato il carattere di vere e proprie istituzioni
politiche, i partiti di massa affermano la necessità di essere l’unico
tramite sia della presenza dei propri membri nel contesto sociale sia della
distribuzione fra di essi dei ruoli che assumono all’esterno. Finchè, con l’avvento
della concezione del governo di partito (party government), non
pretenderanno di assorbire l’intero sistema di relazioni che organizza l’attività
di governo e di vanificarne ogni capacità decisionale tramite l’esercizio dei
poteri di indirizzo e di nomina [3].
In Italia ciò accade assai presto. I partiti di massa,
cioè, non tardano a spostare il loro baricentro operativo dalla società alle
istituzioni. Partono dall’esigenza di estendere i meccanismi di legittimazione
sociale in un contesto politico - rappresentativo, ma già con i governi
Giolitti iniziano a centrare la loro attenzione sull’occupazione degli
apparati e delle istituzioni dello Stato e del Parastato.
Naturalmente, una posizione di privilegio spetta al partito
dominante. Sia che sorregga il governo da solo, sia che si avvalga di una
coalizione di partiti, nell’esercizio dei poteri di indirizzo e di nomina,
esso afferma una sua egemonia. E ciò anche se, nel secondo caso, un’ineludibile
esigenza transattiva impone il ricorso al principio lottizzatorio.
Gli oltre quarant’anni di governi coalizionali ad egemonia
democristiana sono al riguardo paradigmatici [4]. Senza dire che la DC, con la sua articolazione correntizia, realizza
già al suo interno un circuito poliarchico-negoziale. Si pone, in altre parole,
come una coalizione nella coalizione, con una corrente egemone, pacificata nei
rapporti con le altre, dalla pratica spartitoria.
Come che sia, l’arena politica viene occupata da un
clientelismo partitico i cui attori affermano di fatto il loro dominio su tutti
i processi fondamentali di decisione e implementazione delle politiche pubbliche
del Paese. Un clientelismo che genera una strana combinazione di ineguaglianza e
asimmetria nel potere con una apparente solidarietà sociale.
Nel Mezzogiorno, poi, tale solidarietà difficilmente riesce
ad andare oltre gli antichi termini di identità personali o di sentimenti e
obbligazioni interpersonali. E la dimensione partitica, le volte in cui riesce a
porsi con forza, viene percepita ed accolta più come relazione di parentela che
come relazione di appartenenza. Forse anche perché il clientelismo partitico
nelle regioni meridionali si diffonde, recando con sé una seconda combinazione,
ancora più strana della prima: quella fra coercizione - sfruttamento e
relazioni volontarie sostanziate di mutue obbligazioni [5].
D’altro canto, se l’ottica particolare delle genti del
Sud non viene meno neppure con l’avvento dei moduli clientelari partitici, al
posto dei partiti, saranno i singoli leader o comunque attori partitici a
riscuotere, in quanto patroni, la fiducia dei singoli clienti o dei gruppi di
clienti o persino delle clientele di massa. E sempre in quanto singoli patroni
saranno loro ad incassare la riconoscenza, in termini di voti, per i benefici e
le prestazioni offerte.
Neppure, insomma, con l’avvento del clientelismo di massa
la società meridionale registra un qualche avanzamento negli attesi processi di
maturazione e di orientamento verso il collettivo, in particolare, verso le sue
dinamiche politiche di più alto significato, quali sono quelle collegate con la
partecipazione e la conflittualità. Poiché, in definitiva, anche la nuova
forma clientelare si appiattisce sul sociale, dando il saggio migliore della sua
capacità mimetica.
7. Il trasformismo
Peraltro, occorre aggiungere che non è possibile comprendere
ed interpretare un fenomeno siffatto, senza far ricorso all’altro pilastro
della cultura politica meridionale, quello trasformistico. Precisando
opportunamente che per trasformismo si intende qui una visione della vita
politica per la quale il metro di coerenza degli uomini di potere non va cercato
nella loro fedeltà ad un quadro ideologico ed alla impostazione programmatica
che ad esso si accompagna, ma nella loro capacità di schierarsi sempre con le
forze al governo, allo scopo di conservare la loro posizione di dominio, di
essere in grado di soddisfare le richieste dei loro elettori e, di conseguenza,
attraverso il sostegno crescente di questi, di rafforzare progressivamente la
posizione stessa.
Esso, in realtà, scaturisce da un contesto che tiene uniti
in una stessa logica eletti ed elettori. Il contesto sostanzialmente è quello
clientelare avanti descritto. In pratica, il clientelismo, così come a monte è
legato al familismo, così a valle è intrecciato al trasformismo. Sta, insomma,
in mezzo a far da ponte e unire i tre fenomeni, che, alla fine appaiono
necessariamente tre aspetti di un unico fenomeno.
Quest’interpretazione, si dirà, può tornare valida per il
primo periodo della vita politica postunitaria, caratterizzato da un sistema
elettorale uninominale e maggioritario e dall’assenza dei partiti. Ed invece,
le pratiche trasformistiche delle élite politiche meridionali proseguono
ininterrottamente fino ai nostri giorni, anche dopo l’avvento del
proporzionale e dell’annesso scrutinio di lista e il ritorno, nell’ultimo
decennio, del maggioritario, ancorché imperfetto, e dei collegi uninominali [/i]. Così come non trovano arresto
neppure dopo la nascita e il consolidamento dei partiti di massa.
Le èlite utilizzano infatti questi ultimi come
efficaci strumenti per promuovere la formazione al loro interno di aggregazioni
di interessi o correnti in grado di condizionarsi reciprocamente. Introducono,
in altri termini, in seno ai partiti di massa le loro logiche spartitorie in
maniera da accaparrarsi il massimo possibile di leve elettorali, da tradurre in
posti in parlamento, nelle altre assemblee elettive e negli apparati
amministrativi dello Stato e degli enti locali.
I momenti storici salienti del parlamentarismo, del fascismo,
del doroteismo e del berlusconismo ne sono la riprova. In questo senso, coloro
che ci descrivono la vita politica meridionale come eguale e ripetitiva nei
meccanismi, sempre pronta a svirilizzare il nuovo, riducendolo al vecchio, non
hanno tutti i torti, anche se, naturalmente, la teoria della staticità sic
et simpliciter del Sud, talvolta avanzata, è fuorviante. I partiti, legati
fin dalla nascita a fattori lunghi di parentela ristretta o allargata, di
clientele tradizionali o moderne, nelle diverse congiunture, sono sempre pronti
ad etichettarsi vicendevolmente con i termini di liberale o clericale, radicale
o moderato, fascista intransigente o transigente, democristiano di sinistra o
doroteo. Nella realtà dei fatti, essi perpetuano i vecchi meccanismi di
canalizzazione del consenso e di formazione del personale politico e
amministrativo. Non senza introdurre nella struttura sociale e nel sistema
politico elementi, seppure mai strategici, di novità e di avanzamento.
[1] Per una concettualizzazione di base
sull’argomento, può vedersi M. Fotia, Clientela, “Nuovo Dizionario
di Sociologia“, Ediz. Paoline, Milano-Torino, 1987. Sviluppi e approfondimenti
politologici possono trovarsi poi in S. N. Eisenstadt-R. Lemarchand (a
cura di), Political Clientelism, patronage and development, London, 1991.
[i] L. Pinna, La famiglia esclusiva. Parentela e
clientelismo, Laterza, Bari, 1971, p. 166. Ma v. anche P. Macry,
Ottocento. Famiglie, èlites e patrimoni a Napoli, Il Mulino, Bologna, 2002.
[i] L. Pinna, cit., p. 105.
[2] Cfr. L. Graziano, Clientelismo e sviluppo politico. Il caso del
Mezzogiorno, in Idem (a cura di), Clientelismo e mutamento politico,
Angeli, Milano, 1974; J. Chubb, Patronage, power and poverty in Southern
Italy. A tale of two cities, Cambridge University Press, Cambridge, 1982; L.
Musella, Clientelismo e relazioni politiche nel Mezzogiorno fra Otto e
Novecento, “Meridiana“, 1988, n. 2; Idem, Individui, amici, clienti.
Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e
Novecento, Il Mulino, Bologna, 1994.
[i] B. Catanzaro, Struttura sociale, sistema politico e azione
collettiva nel Mezzogiorno, “Stato e Mercato”, 1983, n. 8, pp. 274-275.
[i] L. Pinna,
cit., p. 107.
[i] S. N. Eisenstadt-R.Lemarchand, (a cura di), cit., pp.
271-295.
[i] P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Il Mulino,
2ª ed., Bologna, 1990, p. 172.
[3] Per la teoria del party government
ricordo: A. Ranney, The doctrine of responsible party government, The
University of Urbana Press, Urbana, 1962; G. Di Palma, Governo di partito
e riproducibilità democratica: il dilemma delle nuove democrazie, “Rivista
Italiana di Scienza Politica“, 1983, n. 1; F. I. Castles-R. Wildenmann
(a cura di), Visions and realities of party government, Walter de Gruyter,
Berlin-New York, 1986. Sull’utilizzazione del modello relativo nell’analisi
del sistema politico italiano, v. G. Pasquino, Party government in Italy:
Achievements and Prospects, in R. S. Katz (a cura di), Party governments:
European and American Experiences, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1987; S.
Vassallo, Il governo di partito in Italia (1943-1993), Il Mulino, Bologna,
1994.
[4] S. Vassallo, cit., pp.
177-270.
[5] L. Musella,
Clientelismo e relazioni politiche ecc., cit., p.80.
[/i] Cfr.
P. L. Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al
fascismo. Profilo storico statistico, Il Mulino, Bologna, 1988; M. S. Piretti,
Le elezioni politiche in Italia dal 1948 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1995; N.
Antonetti, Paradigmi politici e riforme elettorali: dal sistema
maggioritario uninominale al sistema proporzionale, in P. L. Ballini (a
cura di), Idee di rappresentanza e sistemi elettorali in Italia tra Otto e
Novecento, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Venezia, 1997. Sulle
riforme elettorali più recenti v. S. Bartolini - R. D’Alimonte (a cura
di), Maggioritario ma non troppo, Il Mulino, Bologna, 1995; C. Fusaro, Le
regole della transizione. La nuova legislazione elettorale italiana, Il Mulino,
Bologna, 1995; Idem (a cura di), Maggioritario finalmente? La transizione
elettorale 1994-2001, Il Mulino, Bologna, 2002