La cultura politica meridionale
Mauro Fotia
Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi
|
Stampa |
Sul piano storico gli esiti dell’esperienza consociativa
italiana, se per il sistema politico nel suo complesso appaiono decisamente
negativi, per il Pci risultano disastrosi.
Nell’esperienza politica del secondo dopoguerra, comunque,
l’incontro della DC col partito comunista avviene molto presto. Quest’ultimo
manifesta come una sorta di vocazione alla rinuncia dell’esercizio del potere
in solitudine ed in piena diretta responsabilità, e si volge verso una costante
opzione per un potere monopolizzato dal partito di maggioranza relativa e da
esso partecipato, in un rapporto di subalternità.
Gli anni della solidarietà nazionale, in quanto estrinsecano
nella sua interezza (ed in fase matura) tale vocazione, non possono non essere
perciò gli anni della sua umiliante strumentalizzazione e del suo logoramento,
soprattutto, nei confronti della classe operaia. L’astensione prima, il voto
di fiducia dopo, servono ad assecondare il governo Andreotti nel difficile
compito di richiedere sacrifici al Paese in un momento in cui occorre risanare
un’economia ed una finanza gravemente compromesse. Lo Stato di emergenza in
cui l’Italia è astretta, più che una politica di trasformazione (che per
altro la Dc rifiuta di attuare), consente un’azione di contenimento della
crisi ed un intervento sui guasti più vistosi. Ne vien fuori un confronto
continuo tra una Dc che punta a mantenere il massimo del potere e dei privilegi
ed un Pci su posizioni difensive ogni giorno sempre più logorate da una
quotidiana contrattazione sfibrante e compromettente, alla ricerca di una
legittimazione indispensabile per vincere i dubbi e le remore ancora esistenti
nei riguardi di una sua effettiva capacità di governare, sia pure in
compartecipazione subordinata.
Ma i prezzi che il Pci si trova a pagare in conseguenza della
sua decisione di intraprendere il sentiero del compromesso storico non finiscono
qui. Se sul piano politico deve accettare, anzi, deve attivamente cooperare all’azione
di contrasto di ogni movimento collettivo contestatario decisa dalla Dc e
addirittura è costretto ad impegnarsi in un’opera di ammorbidimento dell’attività
sindacale, sul piano sociale, deve sottostare a conseguenze ancora più pesanti.
Poiché non è possibile pensare ad un accordo di vertice con la Dc senza pagare
uno scotto nelle materie che attingono alle rendite ed ai consumi improduttivi.
La necessità di neutralizzare le possibili reazioni corporative delle aree
improduttive, cresciute all’ombra dei governi di centro - sinistra, comporta
una pratica sistematica di transazione e di aggiustamento, un’inevitabile
subalternità alla logica clientelare del governo di partito.
L’alleanza con le classi medie, inoltre, nell’immediato
dopoguerra era cercata dal Pci soprattutto nel Mezzogiorno. Negli anni della
solidarietà nazionale la politica delle “alleanze larghissime” è in
pratica diretta più ad impedire che il regime esistente torni indietro, che non
al suo superamento. Coerentemente con questa impostazione, il coinvolgimento
delle classi medie nelle regioni meridionali si fonda, più che in passato, su
un’analisi del loro potenziale reazionario e, in particolare, sulla
connessione di interessi che in queste regioni si è andata consolidando tra
strati parassitari, “gruppi più reazionari” e potere trasformistico
democristiano, nei suoi diversi momenti di salienza dorotea, morotea e
demitiana. Paradossalmente, lo “schieramento larghissimo” di cui parla il
Pci negli anni di cui ci occupiamo è meno largo di quanto si presenti. La
mancanza di un preciso confine verso l’alto, sostituito da una semplice scala
di priorità nei rapporti con i diversi settori della imprenditoria (ad alta
intensità di lavoro e di capitale), comporta necessariamente per un partito
comunista una delimitazione simmetrica verso il basso, una delimitazione dei
confini dell’area assunta politicamente come proletaria: non si possono
aumentare allo stesso momento salari e profitti senza intaccare a fondo le
rendite e i consumi improduttivi, senza, cioè, operare una drastica
redistribuzione dei redditi [i].
La selettività del compromesso storico e insieme la ragione
della sua coerenza, ove ci fossero state, sarebbero dovute sussistere non tanto
al livello dei benefici delle riforme, del tutto improbabili, anzi,
realisticamente impossibili, quanto sul piano dei costi, questi sì sicuri, e di
chi avrebbe dovuto pagarli. Tali costi hanno pesato, innanzitutto, sulle classi
lavoratrici marginali, occupate nelle imprese di dimensioni minori e nelle
campagne, le une e le altre in condizioni di lavoro precarie; in secondo luogo,
sulle classi medie del Sud. E non perché esistesse una volontà politica
orientata in questo senso, ma perché quest’ultima era una conseguenza
implicita del sistema di alleanze su cui il compromesso si reggeva [i].
La scelta consociativa del Pci, naturalmente, in quanto
frutto di quella vocazione al potere partecipato e subalterno di cui ho parlato
sopra, non può non proseguire anche dopo la fine della stagione vera e propria
del compromesso storico. Del resto, le offerte e le donazioni della Dc
continuano e si intensificano, senza arrestarsi neppure dopo la trasformazione
del Pci in Pds. Esse riguardano l’attribuzione di ruoli di comando quasi
sempre subordinati, di forme di cogestione, di “premi di consolazione” vari,
tutti volti ad incentivare la partecipazione alle responsabilità. Alla
presidenza della Camera dei deputati, inaugurata da Pietro Ingrao, un uomo della
sinistra più intransigente del partito, e di numerose Commissioni parlamentari,
attribuita già nel 1976, si aggiunge la gestione diretta o la cogestione di
altri organi di controllo o di giurisdizione, come la Corte Costituzionale.
Ma soprattutto sempre più celere diviene lo spostamento dall’area
collaborativa di governo a quella del sottogoverno. E così il Pci diviene
presente nei consigli di amministrazione di enti pubblici, banche, finanziarie,
società assicuratrici. Fatali sono il coinvolgimento nella logica spartitoria e
la progressiva trasformazione di non poca parte di militanti ed iscritti o di
semplici elettori in clientele di partito, sull’esempio della Dc dorotea,
seguito con forti sottolineature di spregiudicato rampantismo dal Psi craxiano.
Con la conseguente partecipazione di non pochi dirigenti nazionali, regionali e
locali a gravi fatti di corruzione politica e amministrativa, alla condivisione
di privilegi borghesi, spesso ingiustificati, e non solo sul piano morale;
privilegi ottenuti e fruiti solo perché si è persone di potere.
È nelle regioni meridionali, in particolare, che la stagione
del compromesso storico avvia una pratica consociativa crescente, approdata alla
fine ad una degradazione della vita politica generale senza precedenti. Ed è
qui che risulta con maggiore chiarezza come il consociativismo italiano non sia
riconducibile al modello delle democrazie consociative, così come è stato
concepito in dottrina, ma sia piuttosto da considerare come un sottoprodotto, un’uscita
laterale, compensativa del fallimento dei tentativi di governare il Paese
attraverso la formula delle grandi coalizioni [i].
La prima regione d’Italia, dopotutto, nella quale, nello
spirito del compromesso storico, la Dc apre al Pci e questi alla Dc, al fine di
dare uno sbocco nuovo all’ambizioso, fallito progetto dell’”unità
autonomistica”, perseguito nella seconda metà degli anni Cinquanta dai
governi Milazzo, è la Sicilia. Quivi l’ingresso del partito comunista nella
maggioranza che sostiene il primo governo Mattarella non si limita a riconoscere
come suoi interlocutori soltanto i fautori del rinnovamento, ma estende tale
riconoscimento anche alle forze tutrici del vecchio ordine e colluse con la
mafia, forze guidate da Lima ma formalmente tenaci sostenitrici della politica
di solidarietà. Tutto così, per il tramite degli antichi scambi tra risorse
pubbliche e consenso, viene a risolversi in un governo dell’economia che
perpetua gli squilibri della società siciliana e ne accresce il degrado
politico. Gli anni Ottanta, del resto, proseguono sostanzialmente in questa
politica di alleanze, trasferendola dalla Regione alle giunte di programma di
più di un terzo dei Comuni dell’isola. Così pure su un sentiero continuista
procedono le scelte del Pds negli anni Novanta [i].
Palese è il rifiuto da parte di quest’ultimo dell’avvio
di un’analisi delle trasformazioni economico-sociali avvenute in Sicilia, come
in tutto il Mezzogiorno, e ancor di più di un’autocritica del proprio operato
degli ultimi vent’anni. Un operato che, com’è stato ben detto, fa del Psi
via via “un socio necessario, un commensale che non ci si può dimenticare di
invitare”.
Si preferisce piuttosto costruire “macchine barocche”,
spingendo sempre più la politica istituzionale delle Regioni e delle
amministrazioni locali verso la disinvolta compromissione e l’irretimento
nelle vischiose strategie trasformistiche. L’autonomia consente a Regioni ed
enti locali governati dalla Dc di avviare rapporti, contatti, attività in
comune, ora a livello di commissioni consultive, ora in ordine alla preparazione
del programma. Il ceto politico postnotabiliare, che pure sembrava entrato in
crisi, riprende fiato e si irrobustisce; i livelli di competenza decrescono
vistosamente; l’inquinamento morale trova un’insperata copertura per
diffondersi e rafforzarsi ancora. “L’arena degli attori politici, di quelli
in particolare, che si muovono nella sfera del potere di governo, si mette in
tensione, si disarticola, creando effetti, insieme, di maggiore concorrenza e di
crescente omologazione” [1].
Emerge, specie in seno ai Comuni, una classe politica poco
visibile e riconoscibile, cementata da una trasversalità volta a pratiche di
corruttela, in particolare nel settore degli appalti, non di rado sorrette dalla
contiguità o dalla partecipazione diretta della criminalità organizzata.
E se è vero che il Pds sostituisce la Dc nella guida di
numerose amministrazioni comunali, a partire da quella napoletana, le
difficoltà tuttavia provenienti dalla gravità oggettiva dei problemi, la
scarsa dotazione culturale e morale del personale politico di cui si è testè
detto e la sua innata inclinazione verso gli accomodamenti e gli aggiustamenti
trasformistici, ridimensionano non poco il significato di tali conquiste [i].
12. Il doroteismo subliminale
Se queste tappe del divenire trasformistico - clientelare del
governo di partito rappresentano la sommaria rievocazione delle lunghe, quasi
strutturali anomalie della politica italiana, occorre osservare che, pur dopo il
crollo, in termini partitici, della classe politica presa in esame, talune di
queste anomalie permangono, e ne nascono altre del tutto nuove.
Ma, preliminarmente, è importante precisare come la
cosiddetta rivoluzione giudiziaria, avvenuta agli inizi degli anni Novanta,
rappresenti solo la causa prossima del crollo di cui si parla. Altre, in
realtà, stanno a monte di essa e ne costituiscono le premesse. Esse si
riassumono nel progressivo inclinare del governo di partito verso la
prevaricazione del suo potere di nomina sul potere di indirizzo. Tale
prevaricazione conduce infatti alla colonizzazione partitica dell’amministrazione
e dell’economia pubblica già avanti richiamata ed ai conseguenti fenomeni
della sottovalutazione dei compiti di direzione politica della società, del
blocco di ogni meccanismo di ricambio del ceto politico, della scomposizione
organizzativa della rappresentanza, dell’apertura di ampi vachi all’azione
delle lobby.
Emergono in ogni caso due raggruppamenti, l’uno di
centro-destra, l’altro di centro-sinistra, costruiti come cartelli elettorali
di forze politiche eterogenee e giustapposte e dunque prive dei requisiti di
base necessari per dar vita a vere coalizioni di governo. Tali forze tendono a
perpetuarsi trasformisticamente per annessioni e cooptazioni. Senza dire che
talune - segnatamente fra quelle inserite nel polo di centro-destra - stanno a
testimoniare nient’altro che il diretto rapporto fra i mali antichi dell’Italia
e il sistema cui intendono tornare.
Fra queste rilievo del tutto particolare assume quel
movimento povero di personale politico, di cultura di governo, di idee, che è
Fi. Di nuove idee politiche infatti ce n’è poche o nessuna nel manifesto
redatto dal politologo liberale Giuliano Urbani, fondatore dell’Associazione
“Alla ricerca del buon governo”. Vi si scorge piuttosto una gelatinosa
raccolta di ovvietà, trasformisticamente presentate come proposte nuove. A
conferma dell’arretratezza culturale italiana nell’elaborazione e nell’uso
di nuovi strumenti di analisi della realtà politica.
È necessario perciò interrogarsi sulle cause dei successi
elettorali di FI del 1994 [2] e del 2001 [3]. Cause che possono
raccogliersi nelle tre seguenti. Prima: l’appoggio del vecchio blocco storico
delle forze produttive, sociali e culturali dorotee, craxiane e consociativiste,
sempre paurose del nuovo. Piccole e medie imprese, professioni, scuola, lavoro
autonomo, lavoro dipendente legato a piccole e medie unità produttive, forze
intellettuali della comunicazione di massa estranee al monopolio statale si
schierano a suo favore. Seconda: una possente organizzazione messa in atto,
attraverso l’insediamento sul territorio di una fitta rete di club Forza
Italia! e la creazione della Diakron, un istituto di monitoraggio dell’opinione
pubblica e di analisi degli orientamenti di voto. Entrambi finanziati e gestiti
dalla Fininvest, un gruppo imprenditoriale di proprietà del leader della
nuova formazione politica, Silvio Berlusconi, comprendente circa trecento
aziende. Terza - e qui s’innesta un’anomalia che nella storia del sistema
politico italiano risulta inedita: la manipolazione massmediologica realizzata
mediante il ricorso all’uso di tecniche subliminali. Il leader del
cartello elettorale di centro-destra, che contende il governo del Paese al
cartello di centro-sinistra, è proprietario di tre network, che, per di
più, detengono il quasi monopolio del settore privato della comunicazione
televisiva. L’informazione non è uno strumento di persuasione fra gli altri
strumenti; è una risorsa strategica dalla quale il consenso delle masse risulta
fortemente influenzato [4].
Se poi tutto questo viene raccordato coi fenomeni del
leaderismo, della personalizzazione della politica e della spettacolarizzazione
della stessa [/i], ci si rende conto di come lo status proprietario del
quale parliamo ingigantisca la situazione di conflitto di interessi nella quale
Silvio Berlusconi versa, rendendola, sotto i profili democratici di base,
addirittura mostruosa [i].
Egli, poi, affronta la campagna elettorale come una vicenda
di avventurosa pirateria, giocata fuori dalle regole consacrate. Si offre al
pubblico come un leggendario interprete dello spirito di intraprendenza e
dinamismo, capace come nessun altro di gestire i destini dell’”azienda
Italia”, come egli la chiama. “Sinceramente, dichiara al riguardo, sono l’unico
in grado di cambiare le cose, perché gli altri non hanno la mia esperienza in
campo imprenditoriale”. E ancora: “Io sono più bravo del presidente della
Microsoft perché il mio gruppo è proprio tutto mio”. Offre, insomma, al
blocco sociale post-doroteo e post-craxiano le seduzioni di una cultura
politica, che è nient’altro che la cultura aziendale, molto forte ed
omogenea, che tiene unite le varie imprese del suo gruppo. Una cultura
«centrata sul mito del leader - fondatore Berlusconi, su un forte senso
della “missione” aziendale e su una serie di valori condivisi - tra i quali
l’importanza dell’iniziativa individuale (la cosiddetta “imprenditorialità
diffusa”), la professionalità, la centralità dei rapporti umani sia all’interno
dell’azienda che con i clienti, la rapidità decisionale, la flessibilità, l’aggressività
nei confronti del mercato, la capacità di innovare» [i].
Berlusconi si presenta, infine, in televisione nei panni
dello sfrenato affabulatore, puntando a convogliare su di sè i sogni e le
speranze della gente, della quale ama sottolineare “il trasporto per me”,
com’egli lo definisce, riferendosi in particolare ai ceti giovanili. “Io
sono ormai, dice in proposito, un modello per tanti giovani che mi scrivono
perché vogliono conoscermi”. Talchè Bobbio ha potuto a ragione scorgervi un
fenomeno inedito nello scenario politico italiano del secondo dopoguerra: quello
del padre di un “partito personale di massa” [i].
Ma v’è di più. Dopo aver definito la politica della Prima
Repubblica “un teatrino”, ed aver introdotto nel suo lessico dispregiativo
termini come copione, varietà, farsa, commedia, comica,
balletto, battutista, attore, capocomico, regista,
egli si rivela il “vero Fregoli della scena politica, l’autore capace di
scrivere, il regista capace di mettere in scena, l’attore capace di
interpretare tutti i personaggi che compaiono nel teatrino. L’ordine con cui
questi personaggi si presentano alla ribalta cambia a seconda di quelle che il
capocomico (...) ritiene siano le esigenze del pubblico in quel momento, se
cioè, vada spaventato, commosso, rassicurato, divertito, esortato, lusingato,
distratto, illuso...” [i].
[i] D. Gambetta-L. Ricolfi, Il compromesso
difficile. Forme di rappresentanza e rapporti di classe dal centro-sinistra al
compromesso storico, Rosenberg e Sellier, Torino, 1978, pp. 89-94.
[i] Ibidem,
p. 94.
[i] C. Riolo, Istituzioni e
politica: Il consociativismo siciliano nella vicenda del Pci e del Pds, in M.
Morisi (a cura di), Far politica in Sicilia. Deferenza, consenso e
protesta,Feltrinelli, Milano, 1993, p. 181. Dell’autore v. pure: L’identità
debole. Il Pci in Sicilia tra gli anni ’70 e ’80, Monreale 1989. Cfr.,
infine, M. Pumilia, La Sicilia al tempo della Democrazia Cristiana,
Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 1998.
[i] Idem, Istituzioni e
politica ecc., op. cit., pp. 187-200.
[1] L’annotazione citata si riferisce alla Campania,
ma ritengo possa, senza forzature, essere estesa alle altre regioni meridionali.
Cfr. I. D’Agostino, Per una storia politica ed elettorale della
Campania nel quarantennio repubblicano. Momenti e problemi, in P. Macry-P.
Villani (a cura di), La Campania, Einaudi, Torino, 1990, p. 1007.
[i] Ibidem,
pp.1056-1057. V. ancora S. Minolfi, Ceto politico e Mezzogiorno, “La
città nuova”, 1988, n. 5; F. Barbagallo, Napoli fine Novecento.
Politici camorristi imprenditori, Einaudi, Torino, 1997.
[2] Per la vittoria del 1994 v. G. Galli, Diario
politico 1994. L’imbroglio del 28 marzo e il governo B, Kaos, Milano, 1995, G.
Pasquino (a cura di), L’alternanza in attesa. Le elezioni del 27 marzo
1994 e le loro conseguenze, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 1995. Eccellenti
ricerche comparative fra le elezioni del 1994 e quelle del 1996 (nelle quali
ultime vince la coalizione di centro-sinistra giudata da Romano Prodi) sono
quelle curate da P. Corbetta - A. M. L. Parisi, Cavalieri e fanti.
Proposte e proponenti nelle elezioni del 1994 e del 1996, ed a domanda risponde.
Il cambiamento del voto degli italiani nelle elezioni del 1994 e del 1996,
entrambi edite da il Mulino, Bologna, 1997.
[3] Per il successo del
2001 cfr. P. Bellocci - M. Bull, Introduzione. Il ritorno di
Berlusconi, in Ibidem (a cura di) Politica in Italia. I fatti dell’anno
e le interpretazioni, edizione 2002, Il Mulino, Bologna, 2002; G. Sani - P.
Segatti, Fratture sociali, orientamenti politici e voti: ieri e oggi, in R.
D’Alimonte - S. Bartolini (a cura di). Maggioritario finalmente? La
transizione elettorale 1994-2001, Il Mulino, Bologna, 2002.
[4] Cfr. M. Livolsi - U. Volli (a cura di), La
comunicazione politica tra prima e seconda repubblica, Angeli, Milano, 1995,
capp. 3, 4, 5. Ma v. anche: AA.VV., La politique à la television, “Mots”,
1989, n. 20; F. H. de Virieu, La médiacratie, Flammarion, Paris, 1989; G.
Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna, 1998, capp. II e
VII.
[/i] Per queste tematiche cfr. S. Fabbrini, Il principe
democratico. La leadership nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari,
1999, Parte Seconda.
[i] D. Hine, Silvio Berlusconi, i media e il conflitto
di interessi in P. Bellucci - M. Bull, Politica in Italia, edizione 2002,
cit.
[i] E. Poli, Forza
Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, Il Mulino, Bologna,
2001, pp. 32-33. Sulla cultura aziendale come importante risorsa “invisibile”
v. P. Gagliardi (a cura di). Le imprese come culture, Isedi-Utet, 2ª
ed., Torino, 1995.
[i] N. Bobbio, Tra due
repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma, p. 134.
[i] A. Forconi, Parola da Cavaliere. Il linguaggio
di Berlusconi dal tempo del potere al tempo dell’opposizione, Editori Riuniti,
Roma, 1997, pp. 127-128. Le frasi di Berlusconi citate nel testo sono ricavate
da questa ricerca linguistica.