La cultura politica meridionale
Mauro Fotia
Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi
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8. Il trasformismo parlamentaristico
La più antica pratica trasformistica è quella che gioca la
propria politica delle maggioranze interpartitiche di governo all’interno
delle Camere, dando vita ad un tatticismo parlamentare fatto di manovre,
compromessi, accordi vari tra persone e gruppi, diretti a superare ogni
divergenza e distinzione capace di bloccare la formazione di governi di larga
intesa.
Artefice di una tale pratica, che per quest’insieme di
fenomeni di stravolgimento e di degradazione dell’istituzione rappresentativa,
va sotto il nome di parlamentarismo [1],
è Depretis. Nella sua visione politica di partenza c’è verosimilmente la
convinzione dell’esaurimento dei contrasti ideali, una volta consolidato lo
Stato unitario e di una completa attuazione dei programmi della Sinistra negli
anni che vanno dal 1876 al 1882, e cioè, dalla caduta della Destra alle prime
elezioni a suffragio universale. Ma soprattutto agisce la constatazione che i
partiti, come organismi di aggregazione e di mediazione, sono divenuti incapaci
di rinnovarsi e di realizzare un saldo radicamento fra gli strati popolari
politicamente più attivi; e che la Destra, in particolare, non è in grado di
dar vita ad una vera, sistematica opposizione, ma riduce il suo ruolo critico a
quello delle declinazioni di principi dei suoi uomini più rappresentativi e
delle invettive moralistiche, dimostrando una fragilità, che, alla fine,
approda ai metodi trasformistici, accettati sia pure in nome della presunta
inderogabile necessità di assecondare governi stabili.
In queste condizioni, argomenta Depretis, governi stabili non
possono essere quelli di partito o di coalizione o maggioranza normale, ma solo
quelli legati a maggioranze molto ampie e composite, frutto a loro volta di
accordi svincolati da ogni limite o remora ideale o di principio.
Maestro nell’arte di associare dentro formazioni
governative singoli esponenti dei più disparati settori e interi gruppi o
partiti, “trasformandoli”, è lui stesso. Già nel 1876 rivolge inviti alla
Destra per una collaborazione o coalizione o “trasformazione” [2]. Ma soltanto dopo la
vittoria elettorale del 1882, che consacra un successo più ampio di quello
ottenuto nella consultazione del 1880, egli si sente in grado di realizzare il
suo disegno di conquista di una completa egemonia sulla vita pubblica del Paese.
Ma l’uomo politico che dà spessore storico al trasformismo
è Giovanni Giolitti. Le sue capacità nell’unificare attorno alla propria
politica forze di estrazione diversa e persino antagonistiche sono uniche. Egli
punta naturalmente sulla scelta di deputati particolarmente esposti agli
appetiti di governo e di sottogoverno, in ciò agevolato dall’introduzione
dello scrutinio di lista. E su questa strada sviluppa senza grandi intralci le
sue attitudini manipolatorie e la sua bravura nell’amalgamare in un unico “partito”
ampie frazioni della Sinistra e della Destra, destinate a costituire in
parlamento le larghe maggioranze necessarie alla formazione dei suoi gabinetti.
Le crisi di governo di conseguenza sono frutto non della
formazione di nuove maggioranze o dell’elaborazione di nuovi programmi
politici, ma di decisioni del presidente del Consiglio volte a garantire
assoluta discrezionalità alla condotta della sua amministrazione e ad
incrementare il suo potere personale [3]. Esse, paradossalmente, sono
extraparlamentari solo formalmente. Nella realtà sono suggerite al presidente
del Consiglio dalla quotidiana ricerca del difficile equilibrio nei rapporti tra
governo e parlamento.
In questa direzione Giolitti utilizza il decreto Zanardelli
sulle attribuzioni del Consiglio dei ministri del 14 novembre 1901, per
concentrare nella persona del presidente i poteri collegiali del Consiglio.
Rende inoltre ancora più rigido l’accentramento politico, mortificando le
autonomie locali, come evidenzia il ricorso in misura crescente allo
scioglimento dei consigli comunali e provinciali. Accresce il peso della
burocrazia nella funzione di organizzazione del consenso che l’accresciuta
pressione di nuove forze politiche le attribuisce anche sul piano elettorale [4].
Riafferma e rafforza il ruolo dei prefetti, quali capi elettori del governo,
come aspetto permanente della vita dello Stato italiano; instaura un’osmosi
tra la loro carriera e le carriere politiche fino alle più alte sfere
istituzionali; e perciò sceglie tra di loro alcuni dei maggiori collaboratori
per la realizzazione della sua politica [5].
Area singolarmente aperta al trasformismo parlamentaristico
risulta naturalmente il Mezzogiorno, nonostante gli interventi innovativi della
politica giolittiana rimangano sostanzialmente limitati agli strati più
organizzati della classe operaia, e cioè, al Settentrione. Si hanno, in
realtà, da una parte, l’assunzione degli interessi dei nuovi settori
trainanti dell’industria del Nord, in particolare di quelli elettrici e
meccanici, dall’altra, il ricorso alla forza nei conflitti di lavoro che
vengono ad insorgere nel Sud.
Il dichiarato “settentrionalismo” e la lunga serie di
eccidi proletari, da Candela (Foggia) a Giarratana (Siracusa), non impediscono
ad una vasta schiera di politici meridionali di “convertirsi” a Giolitti,
saltando sul carro dell’astuto vincitore delle campagne elettorali: ricordo
per tutti il capo della delegazione napoletana Pietro Rosano ed il giurista
palermitano, ricco di ambizioni e d’avvenire, Vittorio Emanuele Orlando [6].
Questi, piuttosto che farsi protagonisti di un processo di
rinnovamento, si rendono tramiti e non di rado promotori di una ricomposizione
della classe dirigente e della classe politica meridionali, sulla base di un
innesto ancora subalterno di una parte delle nuove forze sociali e politiche. Il
sentiero che battono conduce dopo tutto alla saldatura tra nuovo blocco urbano e
vecchio blocco agrario, preludio di una “pace sociale” che non tarda a
disvelarsi come la metafora di una paludosa immobilità [i].
Preoccupazione fondamentale del blocco giolittiano è di
conseguenza la creazione di un argine all’avanzata del movimento operaio di
cui paventa l’ansia riformatrice e la carica eversiva. Strumento per il
conseguimento di un tale obiettivo è la creazione di un grande partito liberale
di governo capace di fronteggiare l’avanzata del socialismo, direttamente
legata alla formazione del proletariato industriale, e di contrastare l’affermazione
di un cattolicesimo politico di stampo popolare.
Il Mezzogiorno è l’area strategica attraverso la quale
siffatto disegno può e deve passare [i].
9. Il trasformismo fascista
Un tentativo di rescindere i canali che, attraverso il
sistema dei notabili, collegano società e Stato in termini clientelari viene
messo in atto, tuttavia, pur con non pochi tentennamenti, incertezze e
contraddizioni, dal fascismo.
Il regime raccoglie la feroce critica rivolta dagli epigoni
della Destra storica al funzionamento delle istituzioni rappresentative nell’Italia
meridionale, allo scopo di negare la legittimità e la possibilità stessa di
una rappresentanza democratica di un popolo bisognoso di essere educato e
guidato. Ma la sua polemica non è solo antiparlamentare, bensì anche
antinotabiliare e anticlientelare.
Ciononostante, non sortisce effetti significativi. Anche a
prescindere dal fatto che queste critiche fanno tutt’uno con la sua radicale
scelta antidemocratica. Da una parte, la massa dei clienti finisce per
trincerarsi in una dimensione del tutto particolaristica, come fanno sia le
aggregazioni più organizzate, residenti negli aggregati urbani ed alimentati
dai ceti medi, in particolare, dalla piccola borghesia vivace e inquieta che
anima il fascismo, sia i gruppi primari fondati sulla parentela allargata e sul
vicinato, che vivono nei piccoli centri e nei paesi. Dall’altra, i patroni
politici, danno la loro adesione formale al regime, ma non di rado ne
disprezzano le forme di raccolta del consenso fatte all’insegna di eccitazioni
patriottiche, isterismi nazionalistici, esaltazioni grottesche della figura del
duce e così via. Essi sono consapevoli che i voti continuano a provenire dal
rispetto delle antiche regole clientelari. E perciò, anche quando si trovano
inseriti nei quadri del potere fascista, più che sull’ideologia e sulla
propaganda, fanno affidamento sui programmi di lavori pubblici che il regime
comincia a mettere in atto nel Sud.
Insomma, da una parte, ci si trova dinanzi ad una strategia
che si propone di creare e controllare un largo blocco sociale interclassista,
fondato sulla rottura dei meccanismi di cooptazione propri delle istituzioni
liberali, basati sul censo e sulle tradizionali gerarchie della società civile.
Dall’altra, si dà avvio al riassorbimento di buona parte del ceto politico d’età
liberale, all’interno di un progetto che, partendo dal centro, cioè dallo
Stato, annuncia e promette una nuova, penetrante azione politico - burocratica
ma anche economica, per la prima volta diffusa capillarmente sul territorio.
Elementi di continuità si combinano così con elementi di mutamento in un
difficile equilibrio che il nuovo regime ha l’ambizione di gestire facendo
ricorso ad una dirompente presenza dello Stato autoritario, intesa a spezzare
per via orizzontale e verticale la marginalità sociale delle regioni
meridionali, e di adoperare, in una improbabile sintesi, pretese giacobine e
tecniche giolittiane [i].
10. Il doroteismo
Una forma più sottile e complessa di trasformismo è quella
espressa nel secondo dopoguerra dalle idee e dalle pratiche dorotee,
configuranti un modo di concepire la politica come attività creatrice di un
sistema di potere solido, stabile, esaustivo di tutti gli ambiti possibili e
tendente all’occupazione dei gangli vitali dello Stato e degli enti
territoriali, nonché della vasta area di economia pubblica da essi controllata.
Maturato inizialmente in seno ad una parte del gruppo
dirigente della Dc, diviene in prosieguo patrimonio dell’intero partito, e da
ultimo, come accade del resto alle precedenti forme storiche di trasformismo
clientelare, cultura comune a gran parte della classe politica italiana. Anche
perché non esaurisce la sua dimensione nell’essere semplicemente logica
politica, ma, fuoriuscendo dal luogo e dall’arco storico nei quali nasce e si
sviluppa, si traduce in regola generale di vita sociale e culturale.
Il Mezzogiorno ne è uno scenario privilegiato, al punto che
taluno si è posto la domanda se il doroteismo non debba essere considerato
addirittura come il prodotto di una linea meridionale di conduzione storica
della Dc, linea divenuta motrice di una strategia, che, a partire proprio dal
Sud, crea nuovi itinerari per il partito d’ispirazione cristiana, in un
orizzonte geografico ben più ampio.
La meridionalizzazione della Dc, in ogni caso, avviata già
agli inizi degli anni Cinquanta, è un fatto. Il Mezzogiorno, che, nel 1946,
rappresenta il 29.7 per cento della forza complessiva di questo partito, nel
1952, raggiunge il 54.8 per cento. E meridionalizzazione non significa soltanto
un crescente peso delle regioni del Sud all’interno del partito, ma anche una
maggior presenza dell’organizzazione democristiana nella società meridionale [7].
Tutto ciò tende a creare nel Sud un equilibrio sociale
nuovo, temperato tuttavia dalla sopravvivenza nelle strutture e nei
comportamenti di caratteri ed elementi fondamentali del vecchio equilibrio. L’élite
dorotea consolida così quel carattere peculiare che sta alla base dell’organizzazione
sociale e politica del Mezzogiorno: il trasformismo clientelare.
Nel secondo dopoguerra, in realtà, la Dc dà vita ad una
classe politica la quale si ripropone di far apparire alle popolazioni lo Stato
non più nemico, quale si è presentato all’indomani dell’unificazione fino
al fascismo, ma protettore della società meridionale, anzi, fautore della sua
modernizzazione. Le sue assicurazioni si fondano sui concreti massicci flussi di
risorse pubbliche decisi dai governi, a partire dai primi anni Cinquanta.
Riforma agraria, Cassa del Mezzogiorno, enti di sviluppo, politica di sussidi ne
rappresentano i principali strumenti di azione. Ad essi vanno aggiunti gli
istituti di credito agevolato e gli interventi dell’Iri e dell’Eni.
La classe di cui si parla punta, insomma, a gestire una forma
di rinnovamento del Sud attraverso un tipo di penetrazione del mercato che
consenta, pur tra talune forme di vivacizzazione, di conservare e proteggere la
società tradizionale. La sua non è dunque una politica di mera conservazione,
ma di protezione e di crescita moderata, finalizzata a mantenere i consensi
elettorali dei vecchi ceti e a conquistare quelli dei nuovi, entrambi
astringendoli dentro le vecchie e le nuove gabbie della subalternità
socio-economica e culturale. E così, contrariamente a quanto accade in tutte le
società investite dall’impatto del mercato, da una parte, eleva i redditi ed
apre ai moderni consumi, dall’altra, mantiene gran parte dei vecchi
condizionamenti socio-economici e culturali.
La metodologia di sviluppo della società meridionale,
praticata dalla classe politica dorotea, appare in altre parole,
fondamentalmente dicotomica. Da un lato, avvia innovazioni, sostituendo nell’agricoltura
i notabili, percettori di rendite fondiarie, con gli imprenditori agrari, nell’industria
la vecchia imprenditorialità con i nuovi manager, nel terziario i
tradizionali commercianti con i più moderni gestori di competitive reti di
scambio. Dall’altro, mantiene una politica di tutela che fa permanere in vita
vasti settori di sussistenza, legati ad antiche forme di protezione
parassitaria.
Trova necessario di conseguenza introdurre dei mutamenti
nelle tradizionali funzioni di mediazione. In forza di essi, cambiano i soggetti
stessi che esercitano tali funzioni: dai notabili si passa ai political
brocker, i quali molto meglio dei primi trovano accesso ai luoghi del centro
che decidono l’erogazione delle risorse destinate alle periferie. Cambia il
tipo di risorse: da quelle di proprietà privata, solitamente notabiliare, si
passa a quelle di proprietà pubblica. Cambia il contenuto della mediazione:
dalle transazioni e dai compromessi in ordine alle funzioni repressive dello
Stato, si giunge all’azione di stimolo del suo intervento nei settori
produttivi e nei diversi ambiti della vita sociale.
Naturalmente, l’élite dorotea meridionale per
garantirsi la continuità nello svolgimento delle funzioni di mediazione ha
bisogno di istituzioni di affiancamento: sindacati, patronati, associazioni ed
organizzazioni del più vario tipo. All’interno di questi gruppi
istituzionalizzati, e soprattutto di quella complessa machine politics
che è divenuto il partito democristiano, i membri dell’élite
agiscono, in realtà, nelle vesti di imprenditori di mediazione, così
assicurandosi un rapporto fiduciario con quei larghi strati di cittadini, che,
dal canto loro, hanno bisogno di rassicuranti interpreti delle loro istanze.
Sono questi gli strati, che, una volta entrati nella logica fiduciaria, per via
dei favori già concessi o impegnati, diventano i sostenitori naturali di
siffatta élite e della sua funzione di conversione delle risorse
economiche e sociali in consensi politici, raccolti non di rado con metodi i
più spregiudicati.
La nuova metodologia consente, comunque, all’élite
dorotea e all’intera Dc di espandere sempre più la sua azione trasformistica
e di far sì che la compresenza e la coagulazione di vecchio e di nuovo, di
avanzamenti e di arresti, nella società meridionale, rendano sempre ricche le
sue raccolte di consensi. Così irrobustendo un blocco sociale che trova i suoi
ampi supporti nella residua piccola e media borghesia rurale, in quella
cittadina degli affari e delle libere professioni, in talune frange
intellettuali e giovanili, in settori di non poco conto del mondo cittadino ed
operaio. Il cemento è rappresentato per i primi due segmenti dai mille benefici
e aiuti posti in atto dalla già citata politica assistenziale; per il terzo ed
il quarto da un tipo di riformismo industriale e agrario, produttivo di un certo
numero di posti di lavoro e di nuove occupazioni, seppure precarie, e
soprattutto dagli impieghi pubblici, assicurati da una selva di organismi,
istituti, enti, consorzi. Siffatto blocco sociale è anche un blocco politico,
poiché da esso provengono le nuove leve della Dc, i quadri del potere locale,
regionale e nazionale, nonché la dirigenza e il management, collocato
alla guida dei numerosi enti pubblici, consorzi, banche, società finanziarie,
messi in piedi da questo programma di rinnovamento, e affidati per lo più a
democristiani, in maggioranza dorotei di sicura osservanza. Il trasformismo
giolittiano, come quello fascista, per progredire sfrutta l’arretratezza
politica. Quello doroteo si fa, per così dire, fine a se stesso, mezzo puro e
semplice di gestione del potere, arrivando ad un tal punto di compromissione, da
finire, in certi casi, col condurre alla paralisi della stessa macchina
politica, incapace alla fine di mediare positivamente gli interessi dei numerosi
gruppi e gruppuscoli, dei centri palesi ed occulti del potere, delle lobby,
delle organizzazioni criminali, aggregazioni tutte col blocco politico doroteo
in vario modo raccordate [/i]. Sì che il blocco medesimo finisce col
divenire il portatore di una visione politica che separa la ricerca del potere
dalla ricerca di ogni e qualsiasi valore.
[1] G. Perticone, Parlamentarismo e
antiparlamentarismo nell’esperienza costituzionale italiana (1961), ora in Idem,
Scritti di storia e politica del post-Risorgimento, Giuffrè, Milano, 1969.
[2] R. De
Mattei, Dal “trasformismo“ al socialismo, Sansoni, Firenze, 1940, pp.
12-13, ora in Idem, Aspetti di storia del pensiero politico, Giuffrè,
Milano, 1982, vol. II. Dal secolo XVI al secolo XX.
[3] C. Ghisalberti, Storia
costituzionale d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 189-190.
Cfr. anche E. Gentile, Le Origini dell’Italia Contemporanea. L’età
giolittiana, Laterza, Roma-Bari, 2003.
[4] E.
Ragionieri, La storia politica e sociale, in AA.VV., Storia d’Italia,
vol. 4. Dall’Unità a oggi, t.3, Einaudi, Torino, 1976, pp. 1878-1879.
[5] Ibidem, pp. 1875-1876. Sul
complesso delle rotture istituzionali operate da Giolitti cfr. G. Melis,
Istituzioni liberali e sistema giolittiano, “Studi Storici”, 1978, n. 1.
[6] Cfr. M.
Fotia, Il liberalismo incompiuto. Mosca Orlando Romano tra pensiero europeo
e cultura meridionale, Guerini e Associati, Milano, 2001, pp. 77-120;
179-245.
[i] S. Lupo, Tra
centro e periferia. Sui nodi dell’aggregazione politica nel Mezzogiorno
contemporaneo, “Meridiana”, 1988, n. 2, pp. 39-40.
[i] Ibidem, p. 47.
[i] C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia,
cit., pp. 189-190.
[7] M.
Rossi, Un partito di anime morte. Il tesseramento democristiano tra mito e
realtà in A. Parisi (a cura di). I democristiani, Il Mulino,
Bologna, 1979, pp. 26-27.
[/i] Cfr. M. Fotia, le lobby in Italia.
Gruppi di pressione e potere, Dedalo, ristampa, Bari, 2002, pp. 81-121. Per il
passaggio dai notabili ai political brocker v. G. Gribaudi,
Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Rosenberg e
Sellier, Torino, 1980, pp. 69-80.