Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”
Gianni Cirino
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Infatti gli approcci organizzativi utilizzati negli ultimi
decenni sono stati caratterizzati dalle seguenti logiche:
• orientamento prevalente all’efficienza (pianificazione
ed “ottimizzazione” delle risorse per svolgere un’attività, specie di tipo
produttivo nel cosiddetto “capacity planning” o MRP II (Manifacturing Resource
Planning) [1];
• focus sui “processi fisici”, cioè logistico-produttivi
(automazione dei magazzini, delle fasi di produzione tramite utilizzo dei
robot nel CIM);
• interventi di “reset” sugli organici aziendali, ovvero
riduzioni più o meno a parità di output;
• forte leva sulla revisione ed il potenziamento dei processi
informativi, a cui adattare poi l’organizzazione.
Gli anni Ottanta hanno perciò visto l’adozione del Total
Quality Management (TQM) e del Just In Time (JIT) [2],
come principi fondamentali di ogni revisione dei processi produttivi; essi sono
stati solo un punto di partenza ed attualmente, negli anni 90, ci si è resi
conto che:
• gli approcci riorganizzativi devono riuscire a garantire
nel contempo massima efficacia ed efficienza, ma in relazione ai fattori-chiave
ovvero all’analisi del “ core business” dell’azienda e comunque in parallelo
alle evoluzioni delle strategie del business;
• i processi con maggiori margini di miglioramento non sono
quelli fisici, ma quelli gestionali/impiegatizi;
• gli interventi di “reset” degli organici dovrebbero essere
effettuati sulla base di una chiara preliminare individuazione di come garantire
il mantenimento o l’aumento dell’efficacia dei processi chiave o primari per
l’azienda.
Tutto ciò ha portato alla messa a punto del cosiddetto “Business
Process Reenginering”, ovvero ad un approccio organizzativo di ridefinizione
dei processi aziendali, delle strutture organizzative, dell’uso delle tecnologie
informatiche e delle comunicazioni, con l’obiettivo di ottenere dei
salti di qualità nella competitività globale dell’azienda capitalista nella
realtà del mercato internazionale. [3]
Se dalle teorie e pratiche organizzative dell’attuale paradigma
“manageriale”, predicato dai “guru” e dalle società di consulenza direzionale,
si passa alle teorie poi, che apparentemente sembrano le più “progessiste”,
poiché “teorizzano” processi di “liberazione” ed “autonomizzazione” dei lavoratori
tramite l’uso delle tecnologie informatiche e telematiche, si arriva al seguente
“paradossale” risultato:
• il principale mezzo di produzione (l’abilita cognitiva)
non e’ più incorporabile nelle macchine; queste sono un supporto alla comunicazione
ma paradossalmente la grande sofisticazione delle macchine le “ha svuotate”
di valore autonomo e ricollocate come un medium, un ambiente per la competenza
comunicativa umana. Il mezzo di produzione principale e cosi’ strutturalmente
spostato dalla macchina industriale alla mente, all’intelligenza collettiva
ed individuale dei lavoratori.
La “devastazione” teorica e culturale dell’analisi marxiana
da parte di certa “autonomia”, che si ispira anche alle recenti teorie negriane
[4], in
particolare delle teorie del “General Intellect” di Marx, arriva ad identificare
“la possibilità di un processo liberatorio”, incarnato nella cosiddetta “ intellettualità
di massa”, capace di sganciarsi dalla potenza pervasiva del legame sociale capitalista
nelle sue “nuove forme “ (informatiche e telematiche) di produzione, identificando
l’innovazione tecnica come immediata possibilità di vita liberata, prometeismo
del soggetto collettivo e giungendo a “rimuovere” la necessità di un superamento
del sistema capitalistico ed alla accettazione “conservatrice” dello stesso
come l’unico modo di produzione economica possibile ed eterno nella storia.
E’ la idea dello svilupparsi autonomo di un capitale di “capacità”
“intelligenze”, che porta allo abbandono di ogni critica globale del sistema
capitalista e delle sue “forme “ di produzione, in nome di una “ variopinta”
molteplicità di linguaggi, impulsi e suggestioni indipendenti, magari vaganti
nella rete del “cyberspazio”. [5]
Al contrario, come si è visto, chi scrive ha cercato di presentare,
anche se necessariamente in modo sintetico ed incompleto, un paradigma di analisi,
che, generalizzando opportunamente i principali risultati del nucleo teorico
marxiano, consente di utilizzare una metodologia, valida anche per interpretare
i fenomeni, “apparentemente nuovi” della attuale fase di sviluppo del capitalismo.
A tal fine si è presentato il paradigma rappresentato dal concetto
di “capitalismo cognitivo”, per cui il valore economico viene generato dall’
“uso della conoscenza” come forza produttiva, ovvero dall’uso delle informazioni,
intendendo con questo termine sia le conoscenze soggettive (tacite od esplicite),
sia le relazioni utili che sono oggettivamente contenute in un contesto organizzativo
od in un codice (procedura codificata).
In sintesi il “capitalismo cognitivo” consiste in questo:
nel fatto che la “conoscenza” (o più in generale, l’informazione
ed il processo di scambio della stessa) si frappone come fattore intermedio
tra il lavoro ed il risultato finale della produzione (l’utilità del bene/merce
o del servizio ottenuto).
Rispetto alla idea tradizionale di capitalismo (pre-cognitivo),
cambia cioè l’oggetto su cui si esercita il lavoro, nel senso che la “forma
cognitiva” del capitalismo non fornisce più direttamente il prodotto od il servizio
utile, ma produce “conoscenza”; è poi la “conoscenza” che, anche attraverso
le procedure automatiche ed informatizzate, a sua volta attiva il processo produttivo.
Niente di nuovo, si dirà, anche perché le macchine o le materie
prime - così come tutto il capitale, che per Marx cumulava il valore del “lavoro
morto” - costituiscono fattori intermedi, ovvero fattori, che per così dire,
“stoccano il valore del lavoro “vivo” (usato nella produzione) e lo trasmettono
al prodotto finale.
La “conoscenza”, che pervade il “capitalismo cognitivo”, potrebbe
essere considerata nient’altro che l’ultima incarnazione di un capitale che,
grazie alla sua natura astratta, ha potuto e può assumere molte sembianze e
forme storicamente determinate.
Era “capitale-lavoro” nella fabbrica artigianale della prima
manifattura, priva di macchine; diventa poi “capitale-macchine” nelle acciaierie
e nelle ferrovie di fine secolo; si trasforma in “capitale-organizzazione”,
durante il fordismo ed alla fine, diventa “capitale-conoscenza” nell’economia
di oggi, nelle fase della accumulazione flessibile; in tutti questi passaggi,
il capitale si trasforma esteriormente, ma si può pensare che non cambi
la sua funzione di “valore astratto”, che, rimanendo impiegato nelle produzione,
è in grado di circolare, di passare, cambiando forma, da un luogo all’altro,
cercando comunque di “realizzare l’obiettivo primario della “valorizzazione”
di se stesso come quantità astratta.”.
Si profilano tempi duri, di selvaggia sottomissione di popoli
ed individui ad una egemonia capitalista, mai finora così incontrastata, benchè
preda di gravi crisi e contraddizioni. In prima approssimazione e, forse in
modo troppo sintetico, si può caratterizzare l’attuale fase dello sviluppo capitalistico
come la fase in cui si sta compiendo la “sussunzione reale della società
nel suo complesso all’egemonia ed al dominio del capitale”.
Comunque, chi scrive, spera di essere riuscito a far comprendere
in questa sintetica trattazione i seguenti fondamentali messaggi:
• l’aumento della complessità economico-sociale non significa
il venire meno di meccanismi ed automatismi di strutturazione generale dell’essere-sociale,
che possono essere identificati nella chiarezza della loro logica di funzionamento;
• il rifiuto di una lettura “tecnicistica” e post-moderna
della società contemporanea va di pari passo con il riconoscimento del permanere,
sia pure in forme inedite e spesso irriconoscibili, del capitalismo come totalità
in grado, ieri come oggi, di autoriprodursi, attraverso continui cicli di
espansione e di crisi, strutturando e piegando ai suoi fini segmenti sempre
nuovi del mondo vitale e lavorativo;
• chi si prefigge la comprensione e la trasformazione della
realtà contemporanea, deve fare primo oggetto di interpretazione, di studio,
di ricerca e inchiesta, proprio il modo di produzione capitalistico, in un
intento di continuità e discontinuità, non tanto con il “marxismo” o meglio
i “marxismi”, quanto ancora una volta, e direttamente con l’opera di Marx,
i suoi metodi di analisi ed ancora più con l’oggetto specifico delle sue analisi.
4. Il fenomeno dei “lavoratori della conoscenza”: analisi
dei risultati di una ricerca internazionale
J. Rifkin, divenuto famoso anche in Italia per il suo saggio
divulgativo “La fine del lavoro” (1995), prospetta uno scenario “pessimistico”,
caratterizzato da nuove polarizzazioni e discriminazioni nella forza lavoro:
da una parte una vasta schiera di lavoratori contingenti, sottoccupati, part-time
o a bassa qualificazione, dall’altra un gruppo ristretto di lavoratori ad alta
specializzazione e reddito crescente; Rifkin stima che i “knowlodge workers”
(termine coniato già da P. Druker) rappresentino attualmente già il 20% della
popolazione lavorativa dei paesi capitalistici più sviluppati. Solo il 4% costituisce
l’èlite dei nuovi professional, che possiede un’enorme parte della ricchezza
e che gestisce, beneficiandone nel contempo, la nuova economia delle alte tecnologie.
Per Rifkin, i “knowledge workers” sono una forza cosmopolita, che vende i propri
servizi e le proprie competnze in tutto il mondo, e che entro il 2020 rappresenterà
più del 60% del reddito, costituendo una nuova classe limitata ed elitaria di
lavoratori.
Ora, pur non essendo in quest’articolo interessati a discutere
queste “visioni profetiche”, non si può negare che, mentre nelle società industriali
del diciannovesimo e del ventesimo secolo, la localizzazione delle attività
produttive nei diversi paesi dipendeva dalla disponibilità di risorse naturali
e di fattori quale il capitale ed il lavoro, ciò non è più vero nell’economia
ad accumulazione flessibile dei prodotti e dei servizi ad alta intensità di
“conoscenza”.
Le industrie a più alta crescita negli ultimi anni 90 microelettronica,
bio-tecnologie, telecomunicazioni, robot, computer, produzione di software per
computer, sono industrie “brainpower”, che non dipendono dalla disponibilità
delle risorse naturali e che possono essere localizzate in qualsiasi parte del
pianeta, in quanto la fonte nuova ed il fattore di successo chiave per il vantaggio
competitivo per la produzione industriale consiste già oggi e consisterà sempre
di più nella creazione e nella capacità di applicazione delle conoscenze “scientifiche”
e soprattutto dei processi economici.
Le trasformazioni che stanno attraversando le imprese nei primi
anni 90 - l’abbattimento delle rigide divisioni funzionali, la delega delle
responsabilità, la diminuzione dei livelli gerarchici- richiedono che la forza
lavoro sia più istruita e competente, anche ai livelli più bassi dell’organizzazione
aziendale, in quanto si vorrebbe che vengano “comprese” le strategie delle
aziende e che si riesca a tradurle in decisioni appropriate; questa
esigenza, che soprattutto è ovviamente una esigenza delle aziende, è dimostrata
da alcuni studi recenti, che evidenziano come gli investimenti in conoscenze
abbiano generato tassi di ritorno degli investimenti doppi rispetto a quelli
relativi agli investimenti in stabilimenti ed attrezzature per la produzione
di merci: si pensi al fenomeno di sviluppo della industria del software per
Personal Computer che è stato ed è tuttora la Microsoft [6].
Ma le competenze da sole non garantiscono il successo, in quanto
devono essere generate, attratte ed organizzate in modo appropriato. Secondo
L.Thurow [7],
si prospetta un futuro in cui l’èlite dei “knowlodge workers” sarà costituita
da figure in grado di integrare reti mondiali di conoscenze, ovvero sembrerebbe,
che, piuttosto che ad una polarizzazione, si potrà assistere ad una diffusione
generalizzata delle conoscenze, anche se gerarchizzate a diversi livelli.
[1] Si veda il glossario per una migliore comprensione di queste tecniche
e procedure organizzative.
[2] Si veda il glossario.
[3] Si veda la bibliografia
specifica ed il glossario per quel che riguarda le “nuove mode” nelle teorie
organizzative.
[4] M.Hardt-T.Negri, “Il lavoro di Dioniso”, Manifestolibri, Roma, 1996.
[5] Si vedano i riferimenti bibliografici in allegato,
per comprendere in modo più dettagliato questi approcci teorici, che sono comunque
“interessanti contributi “, su come si potrebbero utilizzare le tecnologie dell’informazione
e quelle telematiche (associate alle tecnologie della rete Internet) in modo
“alternativo” a quello attuale del capitalismo.
[6] Si veda il recentissimo
volume, tradotto dalla Mondadori di B .Gates “Business alla velocità
della luce” (vedi articolo di B.Vecchi su il manifesto del 14/6/99 “Il Rentier
della conoscenza”) ove il fondatore e capo della Microsoft spiega come “l’uso
capitalistico della tecnologia informatica permette la realizzazione del business,
in quanto la produttività individuale deve continuamente crescere e nessuna
distrazione è ammessa, se non quella che costringa a pensare al miglioramento
dell’organizzazione della produzione“.
[7] Si veda il suo ultimo lavoro del 1996 “The future of Capitalism”.