1. Un cenno storico alle trasformazioni del lavoro. La nuova frontiera: il
lavoro precario a vita
Il cambiamento di culture, schemi intellettuali e convinzioni
politiche, è legato ai processi economico-produttivi e al connesso sviluppo
socio-politico ed economico; si modificano così continuamente i modelli di vita
a partire dalle determinazioni del rapporto di forza del conflitto
capitale-lavoro.
Dal secondo dopoguerra, lo sviluppo tecnologico ha provocato
forti cambiamenti sia nel metodo di produzione, sia, più direttamente, nel
mondo del lavoro. L’industria è stata trasformata, le macchine, nate per
migliorare la produttività lavorativa degli operai nei processi ripetitivi
hanno in realtà aumentato i ritmi e i carichi dei lavoratori senza determinare
pari incrementi di salario reale né corrispondenti riduzioni dell’orario di
lavoro.
Si è avuto poi un altro importante cambiamento: si è
passati dalla grande industria che accentrava al suo interno tutti i processi
produttivi, ad un modello di decentramento produttivo.
Dal punto di vista dei lavoratori, l’informatizzazione,
oltre a provocare disoccupazione strutturale, ha dequalificato il lavoro già
esistente, rendendo ormai “tipico” il lavoro cosiddetto atipico a forte
contenuto di precarietà.
La messa diretta a produzione dell’informazione, la
conoscenza, la creatività e delle risorse in genere del capitale intangibile
offrono uno spunto al dibattito tra economisti, sociologi, politici e uomini di
cultura, sulle conseguenze della nuova rivoluzione: toglierà lavoro, o
piuttosto ne produrrà di nuovo e di che tipo?
Jeremy Rifkin sostiene: “Entro il prossimo secolo, il
lavoro di massa nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in
quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una nuova generazione di
sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia
gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli
esseri umani in infinite mansioni” [1].
Ma è nostra opinione che il lavoro non è finito, sta solo
cambiando all’interno delle nuove regole della società salariale dell’era
postfordista.
Ma quale costi dovranno pagare il lavoratori per questo
cambiamento, sui loro salari, sulle garanzie, sui diritti? Saranno coinvolti in
un processo di ristrutturazione d’impresa che li trasformerà in “un
esercito di riserva senza occupazione che gode del “tempo libero” in via
obbligata?” [2].
Ma per comprendere fino in fondo la fase politico-economica
in cui stiamo vivendo è necessario analizzare i nuovi processi di accumulazione
e la nuova rigidità del mercato del lavoro e non affidarsi a semplici e irreali
proclami.
Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale
degli ultimi 25 anni nei paesi a capitalismo maturo è stato, infatti,
contraddistinto quasi sempre e, anche se in modo diversificato, ovunque da un
forte aumento della produttività del lavoro, a cui è corrisposto un risparmio
di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità
occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività, dovuta ad
intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione
del mercato del lavoro, hanno fatto sì che tali incrementi si traducessero
esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di
remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto
alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi
di produttività. Infatti, non si è realizzato incremento occupazionale, né
corrispondenti incrementi nell’andamento dei salari reali, né tanto meno
relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed, infine, neppure il
mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili
attraverso la spesa sociale complessiva.
La fase della cosiddetta nuova globalizzazione, cioè l’attuale
processo di mondializzazione capitalista, ha significato, quindi, dominio delle
Borse e della finanziarizzazione dell’economia, in conflitto con qualsiasi
forma di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ostacolando la
libertà di scelta e allargamento dei diritti sindacali e universali. Questo
concretamente è il concetto di modernità del capitalismo selvaggio anche se si
tenta di plasmarlo su toni più moderati ed equilibrati con irreali ipotesi di
mercato sociale.
Si ricorda che negli anni ’80 si è avuto un sostanziale
cambiamento nella durata dei cicli economici che, mentre nel periodo seguito
alla seconda guerra mondiale duravano circa cinque anni, dal 1980 in poi si
caratterizzano per una distanza di 10 anni, anche se la ripresa economica nel
senso di vera e propria espansione ha poi stentato a realizzarsi. Al contempo si
è cercato così di “snellire” le imprese pubbliche e private per attuare
una “produzione snella”.
Si determina così l’accentuarsi delle disuguaglianze di
reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo
maturo. A ciò continua ad accompagnarsi la marginalizzazione di intere regioni
del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più
intensa.
La mancata ripresa dell’economia, soprattutto dagli anni
’90 in poi, è anche dovuta alla contrazione della domanda dovuta sempre più
all’estrema disuguaglianza economica e sociale, allargando la forbice di
condizioni tra ricchi e poveri. Si tratta di una ulteriore prova del fallimento
del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le distanze
esistenti tra le classi sociali.
Oggi siamo in una fase di transizione dal fordismo al
cosiddetto postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di sistemi di
produzione alla distribuzione flessibile. Si sono avuti in questi ultimi anni
sempre più licenziamenti, che hanno portato a picchi sempre più alti di
disoccupazione a carattere strutturale. Tutto questo anche perché le imprese
per diminuire il peso degli oneri sociali, ritenuti responsabili del costo del
lavoro eccessivo hanno cominciato ad utilizzare il cosiddetto “outsourcing”,
ossia l’esternalizzazione di interi processi produttivi per aumentare l’efficienza
e la produttività dell’impresa e diminuire i costi.
Domina, quindi, la produzione snella che assicura
direttamente risultati, profitti mentre tutto il resto viene affidato all’esterno,
le imprese tendono sempre più a limitare costi superflui e accumulare scorte
eccessive in una sorta di produzione in tempo reale, sempre più flessibile. “In
sostanza a differenza della produzione fordista, in cui tempi e modi di
produzione erano programmati, nell’epoca postfordista tutto è affidato alle
occasioni che il mercato offre. Nella produzione snella, la comunicazione, il
flusso di informazioni accedono direttamente nel processo produttivo:
comunicazione e produzione si fanno coincidere. Il programma di produzione è
impostato a partire dalle esigenze del mercato. La delocalizzazione, la
frammentazione e la dispersione dei luoghi fisici della produzione non implicano
affatto una diminuzione del potere della grande impresa capitalistica. Essa
continua, proprio grazie alle concentrazioni finanziarie e al downsizing
(dimagrimento), a mantenere il suo potere”. [3]
Si realizzano così le filiere produttive nazionali ma anche
internazionali, alla ricerca di luoghi produttivi in cui il fattore lavoro è
specializzato ma bassi sono i suoi costi e le garanzie sindacali.
Vi è poi una ulteriore diversità tra il modo di lavorare
fordista e postfordista ed è nella composizione, nella forma e nel modo di
organizzare la forza lavoro. Mentre nel sistema fordista era necessaria una
forza lavoro specializzata, e abituata al lavoro sempre uguale nel sistema
postfordista ci si trova davanti ad una richiesta di forza lavoro con alto grado
di adattabilità ai mutamenti di ritmo, di mansione e che sappia essere al passo
con il mercato. La nascita della forza lavoro precaria ha messo in crisi la
visione fondata sul tempo di lavoro formale piuttosto che sul tempo di
produzione reale.
Tutto ciò porta alla diversa impostazione dei diritti
sociali dei lavoratori che nel sistema fordista avevano una validità universale
e venivano protetti da leggi, mentre nel sistema postfordista sono le leggi del
mercato a comandare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale e il lavoro
diventa sempre più costrittivo e senza garanzie. Oggi i lavori si svolgono
sempre più nell’ambito delle relazioni interpersonali.
L’attuale crisi di credibilità degli indicatori economici
classici adottati dalla Statistica Economica rivela l’insufficienza della
scienza economica nell’analisi della trasformazione in atto. La diffusione del
postfordismo impone oltre che nuovi modelli e misurazioni economiche anche una
nuova ridefinizione delle relazioni industriali e del rapporto capitale-lavoro
con un ritorno ad un ruolo centrale dello Stato e del suo rapporto con il
mercato. Centralità quindi di una funzione non solo di mediazione ma fortemente
interventista dello Stato, mentre invece gli economisti della globalizzazione
sottolineano che lo Stato sociale inteso sia come ridistributore di reddito
attraverso la fiscalità, sia come creatore di redditi, rappresenta per il
capitalista postfordista un fattore di disturbo da eliminare.
Parlare attualmente di era postfordista non significa che non
sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi l’attuale era
socio-economica produttiva è caratterizzata per la compresenza di strutture,
soggetti, funzioni prefordiste, fordiste e postfordiste con compiti diversi
nelle diverse localizzazioni produttive e nelle diverse fasi della catena del
valore.
È in tale quadro storico politico-economico che vanno
interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul
paradigma dell’accumulazione flessibile. Caratteristiche che comunque si
possono schematizzare con: una specializzazione flessibile, la volatilità dei
mercati, la riduzione sostanziale della funzione di regolazione economica dello
Stato-nazione e l’individualizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro
con un forte abbattimento dei costi del lavoro.
2. L’accumulazione flessibile a partire dal lavoro flessibile e
precario
A questo proposito va ricordato che Ford razionalizzando le
vecchie tecnologie e la preesistente divisione del lavoro e facendo scorrere il
processo produttivo davanti agli operai che rimanevano fermi nello stesso posto
ottenne elevati incrementi della produttività. Il sistema fordista si instaurò
dopo un processo lungo e complicato durato quasi mezzo secolo anche perché uno
degli ostacoli da superare era rappresentato dalle modalità e dai meccanismi
degli interventi statali.
La diffusione internazionale del fordismo si verificò in una
particolare cornice storica e politico-economica nella quale gli Stati Uniti
avevano una posizione dominante dovuta alle alleanze militari e ai rapporti di
potere.
Il mercato del lavoro si divideva in un settore di “monopolio”
e in un settore “competitivo”, molto diverso, in cui i lavoratori erano
molto svantaggiati. Lo Stato allora doveva cercare di garantire un minimo di
benessere sociale a tutti, e cercare di trasmettere a tutti i benefici del
fordismo assicurando soprattutto assistenza sanitaria adeguata, casa e
istruzione.
Gli insuccessi che si ebbero in questo ambito produssero una
seria crisi del sistema; così iniziarono una serie di nuove sperimentazioni sia
sul piano dell’organizzazione industriale che su quello della vita politica e
sociale e ovviamente sulla composizione e le dinamiche del mercato del lavoro.
Si è trattato del graduale passaggio a un regime di accumulazione del tutto
nuovo, accompagnato a un sistema completamente diverso di regolazione politica e
sociale.
Si parla allora di accumulazione flessibile, contraddistinta
da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Un dominio sociale
complessivo che si basa su una determinata flessibilità nei confronti dei
processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di
consumo. In questo senso nascono settori di produzione del tutto nuovi, nuovi
modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e, principalmente, da tassi
molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologia e organizzativa.
L’accelerazione del ciclo di produzione implica una
parallela accelerazione negli scambi e nel consumo; la flessibilità è
governata dalla finzione, dalla fantasia, dall’immaterialità,dal capitale
fittizio, dalle immagini, dall’effimero, dal caso, dalla flessibilità nelle
tecniche di produzione, nei mercati del lavoro e nelle nicchie di consumo.
Questo processo di accumulazione flessibile ha portato a una
crescita molto elevata nel “settore dei servizi” ed al contempo ha avuto
come conseguenza principale la crescita a dismisura dei livelli di
disoccupazione “strutturale”, caratterizzata anche da aumenti salariali
nulli in termini reali accompagnati da un sempre minore potere sindacale cha
aveva caratterizzato il regime fordista.
Il passaggio ad un sistema di l’accumulazione flessibile ha
portato alla nascita di nuove forme organizzative e nuove tecnologie di
produzione. L’accelerazione della produzione della disintegrazione verticale -
il subappalto, il ricorso a fonti esterne, e così via - hanno rovesciare la
tendenza fordista all’integrazione verticale e determinando un decentramento
della produzione anche in presenza di una crescente centralizzazione
finanziaria.
Altri cambiamenti nell’organizzazione - come il sistema di
gestione del magazzino just-in-time che diminuisce il volume delle scorte -
uniti alle nuove tecnologie di controllo elettronico, produzione in piccole
quantità hanno diminuito i tempi del ciclo produttivo in molti settori. Per il
lavoratori questo ha avuto come conseguenza una velocizzazione dei processi
produttivi e dei ritmi di sfruttamento con una conseguente dequalificazione e
riqualificazione necessari per soddisfare le nuove esigenze del lavoro.
Nel mercato del lavoro questo ha portato ad una
trasformazione con la nascita e lo sviluppo di regimi di lavoro e contratti di
lavoro molto più flessibili.
La transizione dal fordismo all’accumulazione flessibile ha
posto serie difficoltà alle teorie di ogni tipo.
Oggi, comunque, il cosiddetto modello postfordista tipico
dell’area centrale dei paesi a capitalismo avanzato convive con un modello
ancora fordista della periferia e addirittura con modelli schiavistici dei paesi
dell’estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune
aree marginali del centro nei paesi a capitalismo avanzato). Tutto ciò perché
oggi convivono le diverse facce di uno stesso modo di produzione capitalistico,
anche se lo si vuole identificare come l’era della “New e Net Economy” e
del paradigma dell’accumulazione flessibile. È comunque una fase in cui si
accentua crescita distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di
civiltà.
Vi è una strutturazione del capitale che si accompagna al
lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non
regolamentato, a flessibilità imposta e precarizzazione del lavoro e dell’intero
vivere sociale, a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie che ne
permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità prodotta e prezzo
(elementi tipici del fordismo).
E a questo proposito scrive Bennet Harrison nel suo libro “Agile
e Snella” (1998) “Tutto ciò determina un inasprimento delle
sperequazioni, poiché due persone che lavorano fianco a fianco possono avere
eguale competenza, ma una otterrà un lavoro a tempo pieno, mentre l’altra
passerà da un lavoro precario all’altro” [4].
Nella transizione dal fordismo al postfordismo il lavoro
cambia, sia nella sua forma di lavoro dipendente, sia nella forma del lavoro
autonomo ma sempre all’interno delle diverse forme del lavoro salariato.
Le possibilità connesse al lavoro o alla mancanza di lavoro
e i modi in cui vengono affrontati i rischi ad esso connesso sono diversi e
quindi cambiano o vengono a mancare il welfare universalistico, la solidarietà,
ecc. Ci si trova in una situazione in cui la disponibilità al precariato
diventa fondamentale, sia per l’entrata e la stabilità intermittente nel
mondo del lavoro dipendente e indipendente.
Le figure del lavoro tradizionali sono inserite oggi in un
mondo caratterizzato dalla flessibilità.
“Il diamante del lavoro, che aveva tre facce che
riflettevano luce a varia intensità, il lavoro salariato e normato, il lavoro
autonomo e le professioni libere, si è scheggiato in una molteplicità di
schegge dove più che le forme di cui si è al lavoro conta quanto si è nomadi
lungo il ciclo produttivo e quanto si è multiattivi, cioè disponibili a più
attività lungo l’arco della propria esistenza. Questo vale sia per chi è
fuori nel ciclo della subfornitura, sia per chi è nel sottoscala del lavoro
sommerso, che per i tanti al lavoro nella rete dei servizi” [5].
La parcellizzazione del lavoro ha modificato la vecchia
concezione dell’impresa fordista ed ha ridotto il lavoro salariato con la
nascita di nuove figure professionali, che svolgono i propri lavoro dentro e
fuori l’impresa.
[1] Cfr. Rifkin J., in particolare su
questo argomento si veda il suo “Fine del lavoro”.
[2] Cfr. Rifkin J., anche sulle nuove frontiere socio-economiche
della società informatizzata.
[3] Cfr. J. C. Barbier, H.Nadel,
La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, 2002,
Roma.
[4] Su tali argomenti si veda
anche il precedente nostro articolo su PROTEO n. 1/2003.
[5] Cfr.Cnel:
Rapporto “Postfordismo e nuova composizione sociale”, Documenti CNEL,
Roma 2000, pag. 34