Crescita quantitativa contro sviluppo sociale.

Rémy Herrera

Dove va l’economia dello sviluppo?

Introduzione

“Quando penso alla rappresentazione dell’idea del Big Push di Murphy, mi chiedo se il lungo sonno della teoria dello sviluppo era veramente necessario. Il modello è talmente semplice: tre pagine, due equazioni e un diagramma”. In questo modo Krugman (1993), uno degli autori più in vista della corrente neoclassica - il mainstream attualmente egemone in economia - spazza via mezzo secolo di storia del pensiero e dello sviluppo tra la formulazione della Grande Spinta di Rosenstein-Rodan (1943) e la sua formalizzazione nel Quarterly Journal of Economics di Marphy (1989). I “giorni di gloria della teoria dello sviluppo di alto livello”, avrebbero avuto così, per mancanza di rigore (in effetti, per mancanza di equazioni!) una durata di non più di una quindicina d’anni, fino al contributo di Hirschman (1958). Secondo Krugman, la teoria dello sviluppo è stata, a partire dagli anni ’50, solo una letteratura approssimativa, con qualche dato, qualche “scritto meraviglioso, fonte di ispirazione”, ma non è stata capace di presentare sotto forma di modello alle sue ipotesi di base (le economie di scala in particolare) e avrebbe infine condotto alla “morte intellettuale” della disciplina. Solo negli anni ‘80, quando egli stesso, ed altri, arrivarono ad integrare in seno al corpus neoclassico queste non convessità (rendita crescente, esternalizzazioni...) in un quadro di concorrenza imperfetta, l’economia dello sviluppo avrebbe conosciuto un rinascimento e, per dirla tutta, avuto accesso alla scientificità. Questa tesi della sparizione-riapparizione della teoria dello sviluppo, con diverse varianti, è condivisa dalla maggioranza degli specialisti in questo campo di studi. E’ difesa dai sostenitori del mainstream neoclassico, per il quale, al di fuori di esso, non vi è alcuna scienza, e dunque soprattutto alcuna riflessione sullo sviluppo senza riferimento al loro modello standard. Essa trova anche un’eco favorevole tra gli eterodossi, almeno tra quelli che considerano la subalternità delle loro correnti al mainstream come un “revival” di una disciplina finalmente pacificata, depurata dei conflitti ideologico-teorici di un tempo. Il presente articolo, scritto contro questa tesi troppo consensuale, intende mostrare in che modo la corrente neoclassica, che ha ormai assorbito lo sviluppo come suo componente, sia prigioniera di una crisi molto profonda e in che senso si debba comprendere il suo dominio sull’elemento della teoria, come indissociabile da quella del neoliberalismo sulla pratica dello sviluppo.

1. Politica neoliberale e economia neoclassica all’assalto dello sviluppo

1.1. Il neoliberalismo contro lo sviluppo La teoria dello sviluppo, nella sua forma autonoma contemporanea, è nata negli anni 1940-1950 con una doppia demarcazione: nei confronti del marginalismo neoclassico, attraverso il rigetto dei dogmi sul profitto di scambio e sulle virtù del mercato; e nei confronti del keynesismo (mainstream dal 1945 al 1975 circa), per l’inadeguatezza della sua analisi sulla disoccupazione e sulla crescita a breve termine dei problemi strutturali, in cui si sono imbattuti i paesi in via di sviluppo. Di pari passo un nuovo spazio di riflessione fu aperto dagli eterodossi, strutturalisti e/o marxisti e nella fattispecie la pianificazione, lo strutturalismo secondo la teoria del CEPAL, il “dipendentismo”, le teorie del sistema mondiale1 etc. Queste evoluzioni della storia del pensiero non hanno obbedito a quelle della storia dei fatti, generate dalle grandi rivoluzioni del XX secolo (Russia, Cina, Vietnam, Cuba etc.), dai movimenti di liberazione nazionale (India, mondo arabo, Africa), ma anche dalle necessità della ricostruzione del dopoguerra (lezioni sul piano Marshall all’Occidente, influenza di autori come Kalecki e Lange all’Est). L’espansione degli economisti del Sud (per esempio Prebisch o Furtado in America latina, Mahalanobis in Asia, un po’ più tardi Amin in Africa etc.) ricorda che la teoria dello sviluppo, nata in Europa così come ancora prima l’economia politica, non è monopolio del Nord. L’economia dello sviluppo è dunque apparsa in questo contesto intellettuale aperto dalle profonde mutazioni intervenute su scala mondiale sotto la pressione delle lotte dei popoli, così come da tentativi più o meno radicali di rottura con le leggi del sistema mondiale. Lo Stato era messo al centro di ogni strategia volontaristica di trasformazione strutturale delle formazioni sociali, con lo sforzo di “auto-centralizzare”, di rendere autonome per quanto possibile, le condizioni dell’accumulazione e della riproduzione nelle relazioni economiche globali: pianificazione e industrializzazione all’Est e nei paesi socialisti del Sud, progetti di sviluppo capitalista delle borghesie nazionali altrove. Il solo caso di paese non europeo a decollare in un quadro capitalistico, il Giappone, offriva di per sé l’esempio di una industrializzazione decisa dall’autorità statale (l’Imperatore dell’era Meiji). E’ questo contesto, prodotto dalla storia dei fatti e delle idee, che veniva ad essere riconquistato durante i decenni 1970-80, dal neoliberismo nella pratica e dal nuovo mainstream neoclassico nella teoria. Il neoliberalismo marca il ritorno al potere della finanza, dei più potenti proprietari del capitale su scala mondiale (principalmente degli Stati Uniti), a partire dalla fine degli anni ’70 - e in particolare del rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti nel 1979, che contribuirà a scatenare la crisi del debito del Terzo Mondo. Tale ritorno si genera sulle rovine dei pilastri del sistema mondiale edificato dopo la Seconda Guerra mondiale. Il declino dei tassi di profitto registrato nei paesi centrali alla fine degli anni ’60 si approfondisce e si generalizza negli anni ’70 in una aperta crisi del capitalismo, con l’oscillazione dell’insieme del sistema nel caos monetario e finanziario, l’esplosione delle disuguaglianze e la disoccupazione di massa. La coincidenza tra la rimessa in discussione del sistema “fordista” del capitalismo al Nord (stagnazione e inflazione degli anni ’70), il fallimento dei programmi delle borghesie nazionali “sviluppiste” al Sud (crisi del debito degli anni ’80) e la caduta del blocco sovietico all’Est (primi anni ’90) ha provocato una profondissima modificazione del rapporto di forza capitale-lavoro su scala mondiale. La nascita-rottura della teoria dello sviluppo degli anni del dopoguerra non poteva essere considerata dagli ortodossi keyneso-neoclassici che come una parentesi di declino “ascientifico”, dal momento che le strade seguite dai suoi pionieri non mutuarono quelle dei mainstream, e che le forze sociali che la sostenevano perdevano terreno. Il fallimento delle politiche dello sviluppo, in particolare per mezzo delle industrie di sostituzione alle importazioni, era suggellato a partire dagli anni ’80 dall’avvento del neoliberismo. E’ in questo contesto di arretramento delle posizioni di forza conquistate dai lavoratori e dai popoli della periferia e di riorientamento della gestione della crisi dell’espansione del capitale, che si comprende l’offensiva globale dell’ideologia neoliberale. I suoi dogmi sono noti. A livello nazionale, si tratta di condurre una strategia antistatale aggressiva, per deformazione della struttura di proprietà del capitale a vantaggio del settore privato e riduzione della spesa pubblica a finalità sociale, e di imporre il rigore salariale perno di una deflazione prioritaria su qualsiasi altra considerazione (spartizione del valore aggiunto favorevole al capitale). A livello globale, gli obiettivi sono di perpetuare la supremazia del dollaro sul sistema monetario internazionale (adozione dei cambi flessibili e, come contropartita europea, moneta unica che sottopone alla sua logica tutta la politica pubblica) e di promuovere il libero scambio (sollevato dal protezionismo e dalla liberalizzazione delle transazioni di capitale). La normalizzazione planetaria di questa strategia di “deregulation” rileva alcune funzioni delle organizzazioni internazionali (FMI, Banca mondiale del Commercio...) e delle istituzioni monetarie e finanziarie locali (banche centrali “indipendenti”...). Il dispositivo preso nel suo insieme è posto, fino a nuovo ordine, sotto controllo degli Stati Uniti, la cui supremazia militare garantisce in ultima istanza il funzionamento globale del sistema. In queste condizioni, ogni idea di strategia di sviluppo fuori del capitalismo neoliberale è proibita, come lo sono i tentativi di rendere autonoma la teoria dello sviluppo, in quanto disciplina distinta dal corpus neoclassico dominante. Dall’inizio degli anni ’90, le organizzazioni internazionali prodigano anche nei confronti dei loro “paesi-clienti” delle raccomandazioni di “good governance”. Il FMI intende promuovere una buona gestione che copra “tutti gli aspetti della conduzione della cosa pubblica” quali: accesso all’informazione sulle finanze pubbliche, trasparenza sulle decisioni da prendere, audits di controllo e, da poco “lotta al finanziamento del terrorismo” (IMF, 2003). Si mira a piegare le politiche degli Stati nazionali all’instaurazione di istituti più favorevoli all’apertura del Sud ai mercati globalizzati. Inscindibile dalla riuscita del neoliberalismo e del progetto di società, che è l’obiettivo della sua applicazione, la buona governance è il simmetrico contrario del buon governo.2 Il fine non è la partecipazione democratica degli individui e dei popoli al processo decisionale, né il rispetto del loro diritto allo sviluppo, ma di spingere gli Stati a deregolamentare i mercati, o meglio a ri-regolamentarli con le sole forze del capitale dominante a livello mondiale. Rifiutando di riconoscere l’impossibilità del neoliberismo di uscire dalla crisi e la necessità di un’alternativa che imponga dei limiti esterni alla logica di profitto sulla dinamica del capitale, il concetto della buona governance sceglie di irrigidire ulteriormente la critica delle “insufficienze dello Stato”, fino a raccomandare l’abbandono ultraliberale delle funzioni proprie dello Stato quali: la delega della difesa nazionale, la sostituzione della moneta con una divisa straniera, la privatizzazione del recupero delle imposte etc.. Da qui, questo curioso paradossale appello lanciato agli Stati perché accolgano politiche neoliberali imposte dall’esterno, nel momento stesso in cui i mercati finanziari le detengano sotto la loro sovranità e penetrino con forza nelle strutture di proprietà del loro capitale. Gestire la macchina di Stato del Sud direttamente dal centro del sistema mondiale, neutralizzando il suo potere di Stato; svuotarla di qualsiasi prerogativa reale, costringendola al loro estremo margine di manovra, questo è il segreto della governance ideale visto dal Nord! Ma quale pretesa di democrazia può avere un governo che sottopone l’espressione della sovranità nazionale alla liberalizzazione dei mercati, al pagamento del debito esterno e dei dividendi sugli investimenti stranieri?

1.2. L’assorbimento dello sviluppo da parte dell’economia neoclassica Da ormai più di 20 anni e quasi esclusivamente, i neoclassici dominano la teoria economica e quindi anche quella dello sviluppo. La loro ambizione, si sa, è di comprendere e analizzare i fatti socio-economici a partire dai comportamenti di massimizzazione degli individui. Il cuore dell’economia neoclassica è al tempo stesso sia fonte di rivendicazione scientifica, che teoria dell’equilibrio generale (walrasien) dei mercati. Chiave di volta di tutto l’edificio microeconomico standard, pesantemente matematicizzato e fortemente normativo, ha come suo scopo principale quello di determinare la coordinazione delle scelte dei numerosi agenti, in un quadro che integri l’insieme delle interdipendenze legate ai loro scambi. Queste scelte, che l’assiomatico ortodosso suppone libere, razionali e mosse per interesse personale, dipendono non solamente dalle caratteristiche degli agenti (dotazioni di fattori di produzione, gusti e preferenze, congetture, funzioni di produzione etc.), ma anche dalla forma dell’organizzazione sociale nelle quali operano loro relazioni (ciò che i neoclassici chiamano “strutture di mercato”). Figura privilegiata è la concorrenza perfetta che permette di mostrare, secondo alcune ipotesi (dette di Arrow-Debreu)3, che il modello offre una soluzione di equilibrio secondo la quale la coordinazione delle scelte individuali è possibile e l’allocazione delle risorse ottimale (secondo Pareto). Questo modello mira a trattare le informazioni relative ad un gran numero di individui, ma le difficoltà tecniche incontrate dai neoclassici, li conducono spesso a prendere in considerazione solo un numero molto ristretto di cosiddetti agenti “rappresentativi”. In questi casi estremi, ma non certamente rari nella letteratura (poiché si autorizzano semplificazioni matematiche di salvezza) l’agente è unico e risponde al nome di Robinson. Nella misura in cui l’equilibrio generale fornisce il quadro teorico ultimo di riferimento della quasi totalità dei lavori dei neoclassici, è chiaro che la sua conoscenza rivesta una posta in gioco cruciale per gli eterodossi critici. Tanto più che, nell’ambito dello sviluppo, questa teoria si è trovata ad essere applicata in modo massiccio a partire dalla fine degli anni ’70, attraverso modelli di equilibrio generale calcolabili (questi ultimi calcolano i valori di alcune variabili di equilibrio dell’economia esaminata a partire dai “comportamenti individuali”, per esempio gli effetti sui prezzi e sulle quantità di variazioni sui parametri di politica economica come le tasse o le sovvenzioni). A partire dagli anni ’70, la Banca Mondiale ha fatto un uso abbastanza sistematico di tali modelli per cercare di giustificare teoricamente e di rendere credibile politicamente le misure di accomodamento strutturale estremamente dure imposte ai paesi del Sud4, contribuendo così ad una larga diffusione di questi strumenti in ambiti accademici. Per altri versi, lo studio sul ruolo delle istituzioni nella crescita ha condotto i neoclassici a considerare anche la questione dello sviluppo. Secondo la teoria standard le istituzioni in concorrenza perfetta hanno avuto a lungo lo statuto di dati esogeni. La loro analisi in effetti, era esclusa dal ragionamento economico e considerata fonte di altre discipline di scienze sociali che trattavano categorie collettive, quali la sociologia o la scienza politica. La presa in considerazione di parametri “istituzionalmente determinati” significava al massimo l’integrazione di fenomeni suscettibili di subire l’influenza di attori umani, senza che il loro statuto di valori esogeni, fosse per questo modificato. L’endogenizzazione delle istituzioni nel quadro teorico walrasiano costituisce, in questi ultimi decenni, uno dei compiti prioritari del programma neoclassico, specialmente in queste ricerche sullo sviluppo. Ma è bene ricordare che tutti, o quasi, questi lavori si inscrivono nell’ottica dell’individualismo metodologico e condividono la visione “atomistica” delle istituzioni formulata dai primi marginalisti (in particolare da Menger). Il collegamento della “nuova economia istituzionale” al modello dell’equilibrio generale molto chiaro e sufficientemente sistematico. In Alchian e Demsetz (1972) è evidente e continuo, così come nella teoria dell’informazione (Stiglitz, 2001) o come in numerosi modelli di teorie dei giochi. L’analisi delle caste di Akerloff (1976), per esempio, inizia con queste parole: “Esiste un modello standard di comportamento economico, il modello di equilibrio generale di concorrenza perfetta di Arrow-Debreu...”. Anche Williamson (1975) “per facilitare l’esposizione” parte dall’ipotesi che “in principio c’erano i mercati”. Questo legame teorico con l’equilibrio generale, artificio di garanzia scientifica, è altrettanto esplicito in Noth (1959): “Cominciamo con il considerare il modello di riferimento teorico neoclassico, cioè il modello Walrasien...”. E leggendolo, tutto sarebbe “semplicissimo”: “in effetti, se l’esclusività dell’applicazione dei diritti di proprietà potesse essere garantita apertamente (cioè se non ci fossero costi di transazione) la crescita economica sarebbe realizzata molto semplicemente”5. Sarebbe insomma sufficiente piazzare al Sud le istituzioni appropriate, quelle che garantiscono i sacrosanti diritti di proprietà, per avere le condizioni del decollo. Il modello degli Stati Uniti, proprio quello che con tanta fermezza ha assicurato i diritti di proprietà, non ha forse dato prova della sua “performance”6? E tra i diritti di proprietà potremmo aggiungere quelli degli schiavisti e di quei ladri dei baroni della finanza7 del XIX secolo... Nell’ambito della macroeconomia il successo impressionante della nuova teoria neoclassica della crescita, detta “crescita endogena” o “a progresso tecnico endogeno”, ha avuto dalla fine degli anni ’80 un impatto decisivo sull’economia dello sviluppo. Cercando di risolvere i problemi posti dalla formalizzazione di Solow (1956) e spiegando la crescita del PIL pro capite con il processo stesso di accumulazione (attraverso i fattori di produzione, senza ricorrere a cause esogene) questi modelli collocarono i teorici neoclassici in una posizione quasi esclusiva nella produzione teorica relativa alla crescita. In seguito alle rappresentazioni canoniche fondanti8, sono state proposte migliaia di varianti in campi molto diversi di investigazione quali: ricerca, educazione, infrastrutture commercio internazionale, mercati finanziari etc.. Lo sviluppo è logicamente uno degli ambiti più sistematici9 di utilizzo, al punto che questo approccio si confonde poco a poco con lo studio macroeconomico a lungo termine. La modernizzazione del vecchio impianto di Solow, che rappresenta la crescita endogena (ma che rimane ad agente unico) ha permesso ai neoclassici di incorporare nel loro paradigma le tematiche dello sviluppo così lungamente tralasciate o confinate ai teorici fuori mainstream (Kaldor, Goodwin etc.), liberandoli da ogni “impurità” eterodossa. Trattando temi di moda (il sapere, l’innovazione, la formazione, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione etc.), ha esercitato grande capacità di seduzione. Una delle sue predizioni essenziali, è l’assenza di convergenze di crescita tra i paesi; l’impatto delle politiche economiche è integrato con il tasso di crescita e diventa permanente. Poiché l’accento viene posto sui rendimenti crescenti e esternalizzati, il dibattito si sposta sulla questione, estremamente cruciale, dell’intromissione dello Stato nell’assegnazione delle risorse. La conclusione di questi modelli è che in economia di mercato, lo Stato deve intervenire per accrescere il ritmo di accumulazione del capitale e della crescita nel lungo periodo. Molti eterodossi, esasperati dall’antistatalismo neoliberale ma incapaci di produrre un pensiero alternativo sulla modernità e preoccupati di soprav-vivere in pace in un mondo accademico normalizzato sotto le grinfie del neoclassicismo, dovevano soccombere al fascino della “nova teoria”, al profumo interventista e alla parvenza scientifica! Nell’epoca dell’economia cognitiva, la teoria della crescita endogena non poteva non soggiogare determinati eterodossi ai quali mancava un riconoscimento.

2. L’economia neoclassica e la politica neoliberale in crisi 2.1. La crisi dell’economia neoclassica Oggi gli eterodossi, compresi coloro che sostengono lo sviluppo, sono dunque, ancora ampiamente sulla difensiva e attacchi in piena regola vengono lanciati dal mainstream contro di loro, come abbiamo potuto constatare, da tutti i lati sia dal fronte della micro e macroeconomia (equilibrio generale e crescita endogena) che su quello delle istituzioni (neoistituzionalismo). Questa aggressività richiama le due grandi offensive lanciate dopo Marx dall’”economia teorica della borghesia10 come la definiva Bucharin circa un secolo fa, quella della scuola “austriaca” (Menger, Böhm-Bawerk, Wieser etc.) e quella della scuola “storica” (Rocher, Hilderbrandt, Schmoller etc.). Attualmente tuttavia, la resistenza degli eterodossi è tanto più imperativa quanto l’espansione economica neoclassica, decisamente impressionante nel campo dello sviluppo, ma che non è in grado di oscurare gli intoppi teorici nei quali si è cacciata l’ortodossia, da ormai lungo tempo. Si tratta in primo luogo, dei teoremi di indeterminazione (o impossibilità) di Sonnenschein (1973) che costituiscono, in modo quanto mai evidente per la microeconomia neoclassica, la sfida più seria da rilevare. Questi teoremi che sono matematicamente robusti, mettono in imbarazzo i neoclassici che da tre decenni non trovano la maniera di superarli. Sia tecnicamente che nella sostanza, ritengono che le funzioni di domanda derivata dal modello di equilibrio standard generale possono prendere “una forma qualsiasi”, per cui le condizioni sulle forme di curve dell’offerta e della domanda non sono deducibili dai comportamenti di massimizzazione degli agenti (in concorrenza perfetta come nel caso di mono o oligopolismo). Da qui diventa impossibile dimostrare l’unità dell’equilibrio e della convergenza del “brancolamento” walrasiano11. Inutile dire che tali problemi teorici, assolutamente fondamentali in quanto scuotono le basi del paradigma neoclassico, non sono mai evocati negli studi consacrati ai paesi in via di sviluppo, in particolare in quelli che utilizzano i modelli calcolabili di equilibrio generale e ancor meno in quelli legati alla fissazione dei prezzi sullo scambio o alla contraddizione di un riferimento alla concorrenza perfetta in un modello ultracentralizzato, con un “banditore” alla Walras. Il recente ripiegamento dei numerosissimi modelli neoclassici sul postulato degli agenti “rappresentativi”, se non addirittura dell’agente unico, di volta in volta produttore e consumatore, non è che la conseguenza obbligata della loro incapacità di risolvere i problemi cruciali dell’aggregazione e della coordinazione delle decisioni di una moltitudine di individui. Resta da sapere in che senso si debba parlare di “mercato”, di “scambio” o di “prezzo” (dunque anche di remunerazione del capitale) quando l’aggregazione corrisponde, di fatto, alla duplicazione di un agente unico, come si verifica nel caso delle nuove macrodinamiche di breve termine (teoria del ciclo reale)12 e di lungo termine (teoria della crescita endogena). Per uno stano effetto, la vittoria storica dei neoclassici nel loro sforzo di destituzione dei metodi “holistici” in economia a vantaggio di una visione soggettiva e atomistica, che riduce il comportamento umano ad una psicologia individualista, si traduce dunque spesso a rifugiarsi nell’ “holismo” più sterile che esista (quello dell’agente unico). Quand’anche il mainstream giungesse a districarsi da queste difficoltà, noi avremmo le nostre buone ragioni per rifiutare spiegazioni dei fenomeni economici come risultato di un’agglomerazione di comportamenti che tengono conto esclusivamente dell’interesse individuale. Escludendo dal ragionamento gli insiemi reali, propri dei procedimenti “holistici” e sistemici, i neoclassici scartano scientemente dal loro campo visivo le forze collettive, le istituzioni sociali, le strutture storiche delle formazioni sociali - ciò che von Hayek qualificava chiaramente come “astrazione popolare e pseudoentità collettive” - e la loro stretta e complessa connessione con azioni dell’uomo. Questo genera ciò che a buon diritto si devono definire come delle vere catastrofi intellettuali. Giusto qualche esempio, a volte coronato da Premio Nobel per l’economia; l’esplicazione del feudalismo in North consiste nel fatto che il signore offrirà dei beni collettivi per i quali non esiste mercato (in particolare la difesa) e come contropartita di ciò, la remunerazione dei suoi “servizi” prende forme istituzionali adeguate (come il servaggio) al fine di impedire comportamenti da “passeggeri clandestini”13 da parte dei suoi sudditi. Dello stesso stampo è il rapporto tra padrone e schiavo inteso come “implicito contratto” che tradurrebbe una “libera scelta”14 e, sempre sulla stessa lunghezza d’onda, l’interpretazione che dà Stiglitz della ricomparsa contemporanea della mezzadria non è né razionale né efficace, ma i suoi termini assicurano, al proprietario fondiario, l’equilibrio tra il rischio e l’incertezza legati alle fluttuazioni degli introiti ricavati dai prodotti della terra e l’incitamento al lavoro del mezzadro15. Williamson, non ci ha forse insegnato che i “contratti privati” generati da transazioni tra individui sono stati razionali ed efficaci in diversi periodi della storia16? Ci si potrebbe mai stupire di veder rivendicare, in queste condizioni, la paternità e soprattutto, ancora di recente17, la validità delle “riforme istituzionali” del Consensus of Washington? L’essenziale per questi teorici neoclassici (North, Stiglitz, Williamson etc.), reputati moderati, è di preservare la fiction della “libertà di scelta individuale” degli agenti, così intimamente legata a quella di una “democrazia” che tace sugli effetti della dominazione di classi e di nazioni e sulla violenza dei rapporti di forza tra sfruttatori e sfruttati, cioè sulla contraddizione fondamentale del sistema mondiale capitalista fin dalle sue più lontane origini. Quanto alla crescita endogena, per ritornarci un momento, essa persevera di fatto, nella incapacità del mainstream neoclassico di render conto del progresso tecnico, tanto è stridente la sua determinazione a circoscrivere il “capitale” come motore di crescita. Questo capitale può corrispondere a qualsiasi fattore soggetto all’accumulazione (conoscenza, capitale umano, infrastrutture etc.). Le sue basi concettuali restano inesplorate, poiché restano inesplorabili dai neoclassici - ne siamo a conoscenza fin dagli anni ‘20-30 e dalla “polemica delle due Cambridge”, che ne rappresentò la disfatta. Ed ecco indubbiamente un’opportunità per l’eterodossia di riannodarsi al suo radicalismo di un tempo, quando osava attaccare i pilastri dell’economia borghese, una definizione del capitale che occulta le maggiori contraddizioni del capitalismo (critica marxista), la funzione di produzione (critica keynesiana, seguendo la geniale Joan Robinson), il contenuto ideologico del concetto di “equilibrio” neoclassico (a breve termine, con l’aggiustamento dei prezzi), che rivela una visione totalmente mitizzata dei rapporti sociali18.... Una delle incoerenze più gravi della nuova teoria della crescita è dovuta probabilmente alla concezione contraddittoria dello Stato, che è di volta in volta presente (quando non può distinguere lo Stato dall’agente unico). Ciò che i macroeconomisti affermano per progresso nella teoria è in realtà un’autentica regressione intellettuale; ivi compreso a riguardo il modello di equilibrio generale stesso. Come abbiamo già detto altrove, questi lavori non sono privi di un certo interesse per coloro che si occupano - non di scienza - ma di fantascienza economica19. L’essenziale risiede, bensì nella funzione ideologica di questa teoria, quella in cui rivela un suo punto in comune con la politica del neoliberalismo. La riattivazione neoclassica dell’intervento dello Stato vi agisce, in effetti, per negare la natura di “beni pubblici” di componenti del patrimonio comune dell’umanità (il sapere in senso lato), formalizzato come categorie del capitale suscettibili di appropriazione privativa. Lo Stato viene mobilitato unicamente per favorire l’accumulazione e la remunerazione privata, nell’unica logica del profitto. Endogenizzazione significa dunque mercificazione. Così come la teoria del capitale umano di Becker (1964) era una “macchina da guerra” contro l’educazione pubblica, l’educazione alla Lucas si basa su una decisione assegnataria sull’agente privato e si rivolge unicamente a questo individuo. Essa va incontro ad uno sviluppo dell’educazione pubblica, cioè alla sua compatibilità con il progetto neoliberale, in assonanza con la tesi dominante della Banca mondiale che sostiene l’avvio del “mercato del sapere” (e la “trasformazione degli istituti di ricerca in società per azioni”!)20. La teoria della crescita endogena è nata in seno all’establishment intellettuale degli Stati Uniti per impulso di autori che non hanno mai nascosto le loro tendenze neoliberali. Lucas, per esempio, era tra gli economisti al fianco di Friedman e Becker, che “sostenevano con entusiasmo il programma economico di George W. Bush” nel 200021. Questi neoliberali compresero semplicemente la necessità urgente di ammorbidire la loro posizione antistatale per salvare il capitalismo contro gli eccessi dell’ultraliberalismo, lo Stato cioè dovrebbe intervenire per regolare il mercato, contro il servizio pubblico, a vantaggio del capitale transnazionale, che resta il conduttore del gioco. Di fronte alla recente crisi della mondializzazione finanziaria, altri lucidi economisti neoclassici non reagirono diversamente; Stiglitz stesso non propose forse la “regolamentazione dei flussi finanziari”? L’ultraliberalismo, capace di attaccare senza limiti le funzioni prerogative dello Stato, è riservato esclusivamente al Sud, non al Nord e soprattutto non agli Stati Uniti.

2.2. La crisi del neoliberismo Le politiche neoliberaliste cercano, sotto l’egida della finanza, di gestire la crisi dell’espansione del capitale. Nonostante il loro fallimento di portare il sistema fuori della crisi, che data da tre decenni, offrono ai grandi proprietari del capitale opportunità di investimenti speculativi sui mercati finanziari globalizzati. Di fronte all’insufficienza di possibilità di investimenti vantaggiosi, a causa dell’eccedenza di capitali, questa gestione mira ad allargare i loro sbocchi per evitarne la perdita di valore. Tale gestione del sistema capitalista mondiale, razionale dal punto di vista del capitale è devastante per il resto dell’umanità (quasi tutta) e specialmente per i popoli del Sud, che sopportano l’accelerazione di trasferimento di surplus verso il Nord quali: il rimborso del debito, i ritorni sugli investimenti stranieri, la fuga di capitale etc. Il neoliberismo non è un “modello di sviluppo, ma la messa in opera da parte della grande finanza di una strategia, che si caratterizza al Sud con un nuovo saccheggio e al Nord con un’accumulazione di bassissima intensità. Ora, questa strategia, che ha dato prova del suo fallimento in tutti i campi e in tutti i continenti, continua ad essere imposta unilateralmente e nella maniera più antidemocratica possibile. Le devastazioni prodotte sono ampiamente note. A coloro che hanno creduto al miraggio del “villaggio globale” o che dubitavano della polarizzazione del sistema mondiale, le crisi finanziarie alla fine degli anni ’90 sono servite da lezione con il richiamo degli effetti pesanti della “mondializzazione”, disuguaglianze che esplodono dappertutto, sia a livello interno che internazionale. E’ illuminante a questo riguardo l’esempio della Corea del Sud. Nel momento peggiore della crisi (1997-99) si sono impoveriti tutti gli strati della popolazione, salvo il decile superiore, i cui redditi sono continuati ad aumentare nonostante la crisi. A partire dal riorientamento in senso neoliberale dello Stato, la penetrazione delle aziende transnazionali nella struttura di proprietà del capitale, l’introduzione della flessibilità e dei salari sul mercato del lavoro hanno alterato molto profondamente le basi istituzionali sulle quali questo Paese era arrivato a costruire il suo successo, hanno modificato le condizioni della sua traiettoria futura di crescita e accentuato la sua dipendenza nei confronti dell’egemonia del sistema mondiale capitalista. Sono, di fatto, gli stessi meccanismi della regolazione del sistema mondiale ad essere ormai in crisi, poiché il carattere fondamentale del potere finanziario sotto egemonia statunitense è oggi quello della militarizzazione. Una militarizzazione che si rivela meno nell’evoluzione degli indicatori di “oneri militari” (per quanto riguarda, come sappiamo, le spese per la difesa sono in forte rialzo negli Stati Uniti dall’11 settembre), che nell’espansione aggressiva delle basi militari statunitensi nel mondo e nella crescente implicazione del transnazionale all’interno del complesso industriale militare. La mondializzazione ha un nome ed è imperialismo e il sistema capitalista mondiale, sempre più polarizzato al punto da disegnare i contorni di un apartheid planetario, funziona sempre più apertamente per la guerra. La finanza è in guerra contro chiunque intenda affermare e condurre un progetto autonomo di sviluppo. Si può sostenere, non senza ragione, che questa violenza sistematica (quella visibile, delle guerre imperialiste e quella invisibile dei rapporti sociali capitalisti) provoca al Sud, tra i più poveri, un vero “genocidio silenzioso”. Le cause di queste nuove guerre, specialmente quella nei confronti del popolo irakeno, si rivelano nonostante le apparenze e la propaganda mediatica. Quasi sempre l’argomento che è avanzato a tale proposito è il controllo delle risorse petrolifere dalla Penisola arabica all’Asia Centrale. Questa ovvietà non riesce a nascondere la realtà ancora più forte che, ciò che è in gioco e che rende queste guerre, per così dire “necessarie” è la riproduzione delle condizioni dell’attuale potere della finanza. Quest’ultima, in quanto classe, con i suoi sistemi di sfruttamento e oppressione, con le sue istituzioni nazionali e internazionali (non solamente Bush e i suoi “falchi” e magnati del petrolio), non può più conservare il suo potere se non attraverso la guerra. E questa è la ragione per la quale le recenti divisioni tra paesi ricchi espresse all’interno dell’ONU e della NATO non hanno provocato alcuna rottura all’interno della triade Stati Uniti-Europa-Giappone. L’alleanza di classe interna al sistema “interstatale” della triade è diventata loro indispensabile per contenere le resistenze che nascono da ogni parte. Per tornare un’ultima volta sulla teoria: è sintomatico che il rinato interesse dei neoclassici per ciò che concerne le spese militari, incentivate alla fine degli anni ’80 da ricerche concertate con il FMI e con l’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico, abbia coinciso con il blocco del ciclo dei lavori sul problema del debito pubblico, che si spiega in conclusione con una cattiva gestione delle finanze pubbliche. I tagli alle spese militari, suggeriti dalle organizzazioni internazionali nei paesi debitori (Sud) aprono per i creditori (Nord) un margine di manovra per il rimborso del debito, e nello stesso tempo un’opportunità per tentare di disarmare potenze regionali del Sud, quali la Cina, l’India, il Brasile o il Sudafrica. Questo campo di studi è per l’economista realmente complesso. Esso è legato in particolare ad un’opacità dell’informazione, spesso classificata come “segreto di Stato” (che disturba l’econometrista nei suoi tests empirici), ad effetti multiformi delle spese militari nell’economia (delicati affrontare e formalizzare), o all’interferenza di fattori strategici (che esigono modelli sofisticati). Nonostante l’abbondanza di contributi in questo campo, forniti da neoclassici di primo piano22, non è eccessivo dire che questi lavori, “tecnicizzati” nel loro assorbimento dal corpus ortodosso, non sono ancora giunti a deliberare conclusioni certe. I modelli di domanda, per esempio, di ben lontana matrice keynesiana, si rivelano inadatti a captare gli effetti dinamici di tali spese sull’accumulazione, tanto è vero che le valutazioni sui modelli d’offerta, tipicamente neoclassici, presentano gravi difetti e generalmente non mettono in evidenza alcun impatto del settore militare. Tuttavia, la palma in materia, potrebbe essere data agli esperti del FMI, i cui modelli di simulazione delle spese militari sulla crescita dei paesi del Sud sono di una sconcertante inconsistenza23. Questo dovrebbe incitare il Fondo, secondo la logica e la buona governance, a praticare sui suoi collaboratori delle riduzioni di effettivi e di remunerazioni che si raccomandano altrove dappertutto. La ragione di questa serie di fallimenti? La pretesa neoclassica di edificare un’economia di guerra senza conflitti che è la replica dell’economia senza politica24.

Conclusione

La dominazione dell’economia neoclassica in ambito accademico e specialmente, per quello che qui ci riguarda, sulla teoria dello sviluppo, fa oggi il paio con quella della politica neoliberista nella pratica dello sviluppo. Questo non vuol dire che tutti i neoclassici siano neoliberista, al contrario una complessità del nostro tempo risiede proprio in questa schizofrenia di numerosi economisti, neoclassici nei giorni lavorativi e “di sinistra” nel week end (ma anche nelle votazioni). Ciò significa che esiste una relazione di corrispondenza tra queste due dominazioni, compatibili e più che solidali tra loro, come ha dimostrato la valutazione critica che diamo del neoistituzionalismo e delle nuove micro e macroeconomia dello sviluppo. Non è solo dunque a causa della loro assenza di fondamento scientifico o delle loro incoerenze logiche che si squalificano questi approcci ai nostri occhi, ma è soprattutto a causa della loro funzione ideologica, del loro progetto di società al servizio del capitale mondiale dominante, che le loro metodologie e le loro conclusioni vanno a supportare. Gli eterodossi non hanno certo più i mezzi di dividersi in inutili polemiche, che riproducano le disgregazioni del passato, ormai superate. Non sarà dunque raccomandando nuove “sintesi”, né sottomettendosi all’ideologia dominante del mainstream neoclassico che gli eterodossi arriveranno a mobilitare le forze per la loro ricostruzione, ma al contrario, resistendo e riaffermando la loro radicalità combattiva. Oggi più che mai, dunque la questione che resta tutta intera è di sapere come, al di là dei fallimenti e degli errori del passato, i popoli possano continuare a sperare di costruire un autentico progetto di sviluppo e le condizioni per un’appropriazione del loro avvenire collettivo, in un’alternativa post capitalista, cioè “socialista” o semplicemente “sociale”. E’ proprio questo in fondo, che fin dalle loro origini, muove gli eterodossi dello sviluppo.

Akerlof, G. A., 1976, “The Economics of Caste and of the Rat Race and Other Woeful Tales”, Quarterly Journal of Economics 90. Alchian, A. et H. Demsetz, 1972, “Production, Information Costs and Economic Costs, and Economic Organization”, American Economic Review 62. Arrow, K., 1992, “The Basic Economics of Arms Reduction”, in W. Isard et Ch. H. Anderton, Economics of Arms Reduction and the Peace Process, North-Holland. Azariadis, C. et A. Drazen, 1990, “Threshold Externalities in Economic Development”, Quarterly Journal of Economics 105. Barro, R. et X. Sala-I-Martin, 1995, Economic Growth, McGraw-Hill. Barro, R., 1991, “Economic Growth in a Cross Section of Countries”, Quarterly Journal of Economics 106. Bayoumi, T., D. Hewitt et S. Symanski, 1993, “The Impact of Worldwide Military Spending Cuts on Developing Countries”, IMF Working Papers 86. Becker, G., 1964, Human Capital, Columbia University Press. Boukharine, N., 1972, L’Économie politique du rentier, EDI. Fogel, R., 1964, Without Consent or Contract: the Rise and Fall of American Slavery, W.W. Norton. Guerrien, B., 1996, Dictionnaire d’analyse économique, La Découverte. Guerrien, B., 1999, La Théorie économique néo-classique, tome 1, La Découverte. Herrera, R., 2000a, “Critique de l’économie “ apolitique ””, L’Homme et la Société 135. Herrera, R., 2000b, “Le Rôle des dépenses militaires dans la croissance des pays en développement”, Mondes en Développement 112. Herrera, R., 2001, “Les Théories du système mondial capitaliste”, in Bidet, J. et E. Kouvelakis, Dictionnaire Marx contemporain, PUF. Herrera, R., 2003, “L’État contre le service public ?”, Actuel Marx 34. Herrera, R. 2004a, “Good Governance against Good Government”, Rapport pour la 60e session de la Commission des Droits de l’Homme de l’ONU, juillet, Genève. Herrera, R., 2004b, “Why Lift the Embargo?”, Monthly Review 55, 8. Hirschman, A., 1958, The Strategy of Economic Development, Yale University Press. Husson, M., 2001, “L’École de la régulation, de Marx à la fondation Saint-Simon : un aller sans retour”, in Bidet, J. et E. Kouvelakis, Dictionnaire Marx contemporain, PUF. IMF, 2003, Good Governance: The IMF Role, Washington D.C. Intriligator, M. et D. Brito, 1986, “Arms Races and Instability”, Journal of Strategic Studies 9. Israël, G., 1996, La Mathématisation du réel, Seuil. Krugman, P., 1993, “The Fall and Rise of Development Economics”, . Lucas, R., 1981, “Methods and Problems in Business Cycle Theory”, in Studies in Business Cycle Theory, MIT Press. Lucas, R. 1988, “On the Mechanisms of Economic Growth”, Journal of Monetary Economics 22. Murphy, R., A. Schleifer et R. Vishny, 1989, “Industrialization and the Big Push, Journal of Political Economy 97. North, D. et R. Thomas, 1973, The Rise of the Western World, Cambridge University Press. North, D., 1989, “Institutions and a Transaction Cost Theory of Exchange”, Political Economy Working Paper 133. North, D., 1990, Institutions, Institutional Change, and Economic Performance, Cambridge University Press. Romer, P., 1986, “Increasing Returns and Long Run Growth”, Journal of Political Economy 94. Rosenstein-Rodan, P. N., 1943, “Industrialization of Eastern and South Eastern Europe”, Economic Journal 53. Sen, A., 1992, “Wars and Famines: On Divisions and Incentives”, in W. Isard et Ch. H. Anderton, Economics of Arms Reduction and the Peace Process, North-Holland. Solow, R., 1956, “A Contribution to the Theory of Economic Growth”, Quarterly Journal of Economics 70. Sonnenschein, H., 1973, “Do Walras Identity and Continuity Characterize Class of Community Excess Demand?”, Journal of Economic Theory 6. Stiglitz, J., 1974, “Incentives and Risk Sharing in Sharecropping“, Review of Economic Studies 41 Stiglitz, J., 2001, “Information and the Change in the Paradigm in Economics“, Prize Lecture at Columbia Business School, Columbia University. Williamson, O., 1975, Markets and Hierarchies, Free Press, MacMillan. World Bank, 1999, Development World Report, Washington D.C. Zinn, H., 2002, Une Histoire populaire des États-Unis, Agone.

Prof. al CNRS, Univ. La Sorbona, France

Herrera (2001)

Herrera (2004a, 2004b)

Vedi qui: Guerrien (1996)

Adelman (sulla Corea del Sud), Derevajan (sul Camerun), Bourguignon (sulla Costa d’Avorio) ...

Vedi: North e Thomas (1973)

North (1990)

Zinn (2002)

Romer (1986) e Lucas (1988). Vedi anche il manuale dei corsi: Barro e Sala-i-Martin (1995)

Vedi a tal proposito, per esempio: Azariadis e Drazen (1990)

Bucharin (1972)

Per maggior dettagli, vedi le varie opere di Guerrien (in particolare Guerrien, 1996 e 1999)

Oppure teoria RBC, Real Business Cycles. Vedi a tal proposito: Lucas (1981)

North e Thomas (1973)

North (1989) - Analisi della schiavitù capitalista statunitense di Fogel (1992)

Stiglitz (1974)

Williamson (1975)

Confronta il discorso pronunciato da Williamson in occasione della conferenza dell’Associazione nazionale di Economisti di Cuba nel febbraio 2004 a L’Avana. Vedi il sito della rivista elettronica dell’ ANEC, El Economista

Israël (1996)

Herrera (2003)

World Bank (1999)

Da consultare: il sito del Ludwig von Mises Institute: http://www.mises.org

Vedi: Intriligator e al. (1986), Stiglitz (1988), Barro (1991), Arrow (1992), Sen (1992)...

Esempio: Bayoumi, Hewitt e Symanski (1993)

Herrera (2004a, 2004b)