I partiti tra reinvenzione e rinnovamento
Mauro Fotia
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Ma se, come a lui, anche a noi un approdo è consentito, per
potervi giungere in modo corretto, è necessario passare attraverso l’analisi
delle cause della delegittimazione.
Tali cause penso vadano ricercate soprattutto in due
direzioni, ambedue ritenute capaci di evidenziare una crisi più ampia e più
profonda di quella dei partiti: la crisi della politica.
La prima direzione porta ad assumere consapevolezza dei
processi di globalizzazione di ogni comportamento e rapporto e del conseguente
governo unitario di essi attraverso un assieme di dispositivi materiali e
simbolici operanti sul piano planetario [1]. Conduce, cioè, a prendere atto dell’emergere su scala mondiale di un
nuovo sistema interconnesso e retto mediante reticoli informatico - telematici.
Sollecitando a riflettere, in particolare, su quel sottosistema che più di ogni
altro crea le condizioni della globalizzazione, e che, per ciò stesso, si
avvale del termine stesso non in senso ideologico, bensì in senso operativo: il
sottosistema economico-produttivo o delle imprese.
Tale sottosistema trova in verità il suo supporto nella
trinità istituzionale rappresentata dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario
Internazionale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. E però appare
logico che esso abbia potuto condurre trecento imprese a controllare circa un
quarto del patrimonio produttivo mondiale ed a consentire a quarantasette di
queste di avere un bilancio superiore al bilancio statale che oggi nel mondo
presentano centotrenta Paesi. È il risultato naturale di una visione dei
processi produttivi che, guidata com’è da un individualismo spietato e da un
gelido e impersonale calcolo, imposta tutte le sue strategie sull’abbassamento
dei salari e su uno sfruttamento delle risorse dell’universo sì cinico da
determinare il dissesto radicale dell’ecosistema [2].
Ma l’insieme dei flussi di capitale, di circolazione delle
tecnologie, di diffusione dei commerci internazionali, in un generale concetto
di deregolazione, appare intenzionato non solo a determinare un modello
universale di produzione e di distribuzione, bensì anche ad organizzare un
unico paradigma di potere e di processo decisionale. E così non pochi
politologi, cedendo alle suggestioni di una nuova cosmopolis, presentata come
unica alternativa oltre che all’anarchia internazionale, anche alla
distruzione del pianeta, fanno di tale paradigma un idolo [3]. Così come numerosi giuristi si danno
all’esaltazione del “globalismo giuridico”, quale ideologia di
pacificazione del mondo, non di rado aggiungendo che spetta alle grandi potenze
industriali - Stati Uniti in testa - il compito di garantire un ordine
cosmopolitico giusto [4].
Quel che viene perso di vista in queste posizioni, prima
ancora che la scarsa credibilità politologica e istituzionale della
prospettiva, è la scaturigine della prospettiva medesima da una visione che fa
della politica una realtà subalterna all’economia e alla tecnologia. Si
dimentica che il capitalismo, il quale, in passato, ha avuto bisogno della
politica prima per nascere, poi per svilupparsi, poi ancora per salvarsi dalle
varie crisi, oggi ha bisogno di essa per espandersi e stabilizzare i suoi
controlli, tramite gli strumenti tecnologici, a livello mondiale.
La seconda direzione si volge al tentativo di esaminare
quelle ragioni della crisi dei partiti che appaiono collegati più da vicino con
i profondi mutamenti avvenuti in sede di ideali e tensioni morali del mondo
contemporaneo in seno ai Paesi più avanzati. Mutamenti che ci presentano una
generazione pragmatica, smisuratamente attivistica, affatto preoccupata di dare
uno spessore teorico e sistematico alle proprie intuizioni nate da una tale
febbre d’azione, e soprattutto di analizzare e, se possibile, parametrare le
numerose variabili dell’irrazionalità organizzativa e gestionale del potere
economico: le sue varie forme di sfruttamento, di espropriazione dei diritti
fondamentali, i suoi guasti, i suoi sprechi. Una generazione per la quale misura
delle cose sono l’individuo o il piccolo gruppo, quel che più conta è la
dimensione del privato, la realizzazione dei propri desideri e interessi. Sì
che i modelli comportamentali che tendono a farsi strada, in particolare tra i
giovani, conducono alla preferenza dei microgruppi rispetto alle grandi
organizzazioni politiche, alla ricerca di nuovi luoghi ed occasioni per
ritrovarsi a discutere del proprio vissuto, della propria esperienza quotidiana,
di problemi precisi, di cose concrete. Prende corpo, in altre parole, la
tendenza a vivere secondo un “io minimo”, espressione di chiusura e di
ripiegamento su sé stessi.
A dire il vero, nel mondo giovanile, a fianco della figura di
questo “io minimo”, emerge, sia pure in termini meno diffusi, una figura di
altro segno: quello di chi continua ad ipotizzare grandi ideali, anche se non ha
poi la precisa e concreta volontà di perseguirli. Per distinguerlo dall’“io
minimo” taluno parla di “io idealista”. Non pochi giovani infatti - ma l’idealismo
cui si allude non è privilegio che appartenga in esclusiva agli ambienti
giovanili - sognano progetti politici così alti ed esigenti da non avere alcuna
presa sulla vita concreta. E, una volta sovraccaricata la politica di attese
palingenetiche, è facile che, allorché si è posti di fronte alle smentite
della storia, si attribuisca l’inattuabilità della propria visione soltanto
alla stoltezza degli uomini o all’immoralità dei politici. A quel punto non
è raro che, risentito, il giovane idealista si trinceri in giudizi di condanna
della società, quando, per una reazione infantile, non passi addirittura a
coltivare minacciosi disegni di trasformazione violenta del contesto in cui
vive.
Gli atteggiamenti giovanili dinanzi alla politica sembrano,
insomma, andare dall’estraneità all’utopia. Le due linee di condotta sono
certo diverse se non opposte: nel primo caso siamo in presenza di un
ripiegamento su se stessi che induce a considerare della realtà sociale solo i
rapporti interpersonali; nel secondo caso abbiamo, invece, a che fare con l’esasperazione
di un idealismo politico che, per conseguire obiettivi di assoluta purezza, non
si cura di realizzare il possibile. Tutti e due gli atteggiamenti conducono,
però, al medesimo risultato: in effetti, tanto l’uno quanto l’altro
finiscono con il precludere al soggetto di maturare e affinare quella capacità
di giudizio etico-politico, mancando la quale è arduo inserirsi
responsabilmente nelle vicende storiche e assumere, dall’interno, le
necessarie iniziative.
Naturalmente il quadro concreto è molto più mosso poiché,
accanto agli atteggiamenti richiamati, esistono forme di impegno positivo
connesse all’affacciarsi, anche tra i giovani, di nuovi soggetti sociali la
cui voglia di moralità non disdegna di sottoporsi al difficile compito del
discernimento della situazione reale in cui si vive. Si ricordi per tutte quelle
connesse con il volontariato. Di esso non esiste una mappa precisa. La
Fondazione italiana per il volontariato (Fivol) ha censito novemila
organizzazioni attive in campo sociale che svolgono con continuità servizi
assistenziali alle persone (a domicilio o presso gli ospedali), consulenza
legale, trasporto e accompagnamento di ammalati e d’invalidi. Secondo l’Istituto
di ricerca educative e formative (Iref) nove milioni e mezzo di italiani
aderiscono a qualche organizzazione legata al volontariato e quasi cinque
milioni sono quelli che vi si impegnano in prima persona [5]. Trattasi di un
universo in espansione, diffuso seppure non in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale e fra i più diversi strati sociali. La crisi del Welfare
State ed il conseguente affievolimento delle risorse destinate ai pubblici
servizi hanno contribuito a rendere sempre più significativa questa realtà.
Essa è stata rafforzata, inoltre, dal moltiplicarsi e differenziarsi delle aree
del bisogno, che richiedono interventi sempre più finalizzati e personalizzati.
Negli ultimi anni, in realtà, si è verificato un vero e proprio mutamento
nella struttura dei bisogni che ha evidenziato la disfunzionalità di interventi
precodificati ed anonimi, privi di contenuti prioritariamente comunicativi e
relazionali. La causa di ciò non è tanto da ricercarsi in una trasformazione
sostanziale dell’oggetto dei bisogni, quanto nelle modalità con cui i bisogni
stessi vengono soddisfatti, privilegiando il dialogo e la relazione
intersoggettiva [6].
Una tale realtà tuttavia, pur se cospicua e sociologicamente
dotata di forte senso, non appare in grado di ridimensionare i comportamenti
prima descritti. Favoriti come sono dalle logiche economiche e socio-culturali
imperanti, quest’ultimi continuano a prevalere.
Per comprenderli, peraltro, occorre prestare molta attenzione
agli anni Ottanta, a quel “decennio narcisista”, come fu efficacemente
chiamato, che ha contribuito notevolmente a trasferire nella vita sociale e in
quella politica quello spirito di ricerca spasmodica del profitto quale valore
primario ed assoluto che è dell’economia capitalistica.
Il narcisismo, in realtà, diviene ogni giorno più
traboccante, qualificandosi come l’espressione più pregnante e l’approdo
più naturale del neoliberismo imperante [7]. Imperante come pensiero unico, come può
mostrare la stessa posizione assunta nei suoi confronti dalla maggiore forza di
sinistra italiana, i Ds. La quale pone al centro del suo programma il compimento
degli ideali e degli obiettivi di una cosiddetta “rivoluzione liberale”. Non
già che gli altri partiti socialisti europei sfuggano alla sostanziale crisi
che investe ormai da più anni la socialdemocrazia in quanto tale. Ma pochi si
pongono sulla medesima posizione minimalista del partito italiano [8].
Il fatto è che - a prescindere dalla fondatezza politologica
delle teorie correnti intorno al declino delle ideologie - dietro questo
presunto declino si nasconde il declino vero, quello degli ideali. La questione
ideale si è molto sopita dappertutto, prevale un disincanto routinario che non
è buono per costruire le grandi speranze. E c’è un’aggravante: il vuoto
delle motivazioni. La dialettica della politica sembra trascurare i contenuti. I
discorsi si involvono, s’incartano, ne escono delle noiose iterazioni molto
spesso fondate su un modo del protestare piuttosto gratuito. Un tempo i partiti
discutevano. Ricordiamo tutti dei maggiori partiti le assemblee tematiche che
fecero epoca. Oggi non più, al massimo qualche convegno per collazionare un po’
di classe dirigente cosiddetta “impegnata”. La genericità a volte raggiunge
livelli tali che i programmi solo raramente colgono nel segno delle esigenze
reali e accendono la fantasia degli elettori. La conseguenza di questa carenza
di contenuti ideali e programmatici è il prevalere di un personalismo rissoso e
defatigante da leggere, oltre che da interpretare. Ciò sollecita il latente
egocentrismo di molti protagonisti sino al punto che talune beghe personali
finiscono per assurgere a vere e proprie barriere di principio. Spesso si
rasenta il ridicolo, grazie anche alla particolare sagacia dei mass-media nel
rimestare dentro questa poltiglia di dichiarazioni icastiche, battute al
vetriolo, giudizi per la storia e giudizi per la sub-cronaca. Ne consegue che è
davvero raro trovare quella consequenzialità nei comportamenti concreti di
tutti i giorni, che è il presupposto di una corretta vita politica.
Consequenzialità che è un misto virtuoso di lavoro, rispetto, tolleranza,
silenzio al momento giusto, capacità di attendere [9].
5. La personalizzazione della politica
Ma dopo ciò una cosa è da fissare bene. Non è possibile
porre i partiti al muro del pianto. Non lo è perché rimangono strumenti
fondamentali di ogni regime democratico. Ancorché la nostra società postuli
forme organizzative della partecipazione politica aggregata anche attorno agli
interessi, e dunque alle categorie, ai gruppi sociali, alle associazioni varie,
essa conserva il fondamentale bisogno di momenti di mediazione complessiva, di
sintesi degli interessi settoriali, non di rado contrapposti, in una visione
globale, capace di contemperare le istanze più diversificate dell’intera
collettività.
È proprio da quest’esigenza di organizzare ed esprimere in
modo coordinato ed unitario le scelte politiche dei cittadini che prende avvio,
nel secolo XIX, la nascita dei partiti. Nel passaggio da una concezione
individualista e atomistica della partecipazione politica all’accettazione di
azioni collettive all’interno di soggetti dotati di una capacità integratrice
e di appositi apparati.
Tali soggetti oggi più che mai hanno il compito di garantire
a) la formazione di identità collettive, b) lo studio di programmi aperti agli
interessi generali, c) l’elaborazione di politiche pubbliche, d) la
strutturazione del voto, e) il reclutamento del personale politico [10].
Ora, i processi in atto di personalizzazione dell’attività
politica non sembrano favorirli in tale compito. Non v’è dubbio che non pochi
Paesi occidentali, nel momento stesso in cui vanno decidendo di sperimentare la
prevalenza dell’esecutivo sul legislativo, accettano di affermare ed
enfatizzare la leadership del primo sul secondo, leadership che in concreto
opera come premiership. Ciò accade, ad esempio, negli Stati Uniti nel passaggio
dal congressional government al presidential government, in Gran Bretagna nello
spostamento dell’asse del potere dal parlamento al gabinetto prima, al primo
ministro dopo; in Francia con il rafforzamento dei poteri del presidente e dell’esecutivo,
a danno delle assemblee, proprio della V Repubblica [11].
Stimolando un tale trend, l’avvento e la penetrazione nell’arena
politica dei mass media, in particolare della televisione, diventa strumento
cruciale nel rendere maggiormente visibili gli uomini politici. Lo strumento
televisivo esteriorizza sempre più il potere e lo concentra nelle persone,
esalta il ruolo e la capacità dei singoli, favorendo il loro distacco da ogni
vincolo collettivo, in primo luogo, partitico.
Il processo di personalizzazione della politica è in pieno
svolgimento anche nel nostro Paese [12]. E anche
da noi si delinea come il frutto di alcune operazioni di ingegneria
costituzionale e dell’azione dei media di massa. Fra le prime ricordo la
modifica della legge elettorale in senso maggioritario e con collegi in gran
parte uninominali e le riforme inerenti all’elezione diretta del sindaco e dei
presidenti della provincia e della regione. Per la seconda segnalo l’enfatizzazione
della persona dei candidati nella campagne elettorali, la tendenziale
riconduzione a loro delle proposte politiche dei partiti, la
spettacolarizzazione fino all’accentuazione delle componenti espressive,
agonistiche o drammatiche nel rapporto con il pubblico [13], con le
inevitabili conseguenze di desacralizzazione dell’uomo politico, della sua
riproposizione in termini divistici, della ipersemplificazione e
deideologizzazione dei suoi messaggi [14].
6. Per un rinnovamento dei partiti: a) forma, b) struttura
Rimane il problema oggetto della riflessione che qui andiamo
svolgendo: è possibile rinnovare i partiti italiani? La risposta è affermativa
ed in quanto tale rende necessaria l’indicazione delle linee - almeno di
quelle fondamentali - del lavoro da compiere in questa direzione. Lavoro che
investe a) la struttura, b) la forma, c) i contenuti, d) le fonti di
finanziamento.
Sul primo problema dirò che i partiti non possono più
ricavare il modello dalla loro passata opera di educazione ed inquadramento
delle masse. Così hanno potuto operare perché collocati in condizioni storiche
profondamente diverse, condizioni che imponevano di conquistare e impegnare le
varie classi sociali verso un ideale o di trasformazione o di conservazione dell’ordine
socio-politico esistente. Così che hanno avuto il merito di integrare nel
sistema politico vasti strati precedentemente esclusi, dando un contributo
fondamentale all’affermazione della democrazia moderna.
I partiti odierni appalesano ogni giorno più l’esigenza di
una struttura duttile, pluralista, articolata. Esigenza che può essere
soddisfatta, solo attraverso un’apertura verso la società civile, intesa come
trama di relazioni, legami, scelte non risolvibili di per sé nella sfera
politica. Nella società civile, infatti, si radicano valori, significati,
comportamenti, stili di vita, criteri di giudizio, costituenti un’area
eminentemente prepolitica. Essa è il luogo in cui si strutturano e si
legittimano i rapporti sociali che poi trovano espressione nella sfera
istituzionale.
E tuttavia non va dimenticato che il ricorso alla società
civile e gli usi ideologici che con tale ricorso spesso si collegano sono
divenuti oggi una moda. Con il risultato che nei suoi confronti hanno preso
piede due opposti riduzionismi. Il primo scorge nella società civile una “purezza
originaria”, prodotta da un processo spontaneo di autorganizzazione che la
rende depositaria di ogni virtù civica e la libera da ogni conflitto e
contraddizione. Nel tentativo di difendere la vita sociale da un’eccessiva
presenza dello Stato, si evoca la società civile come sfera di assenza di
qualunque regolazione pubblica e alla fine come entità astratta e svuotata di
qualsiasi contenuto sociologico.
Il secondo riduzionismo si colloca all’estremo opposto.
Esso sostiene che la vita di relazione è sempre viziata da una logica di
dominio, per cui la società civile concretamente si pone come il luogo della
disuguaglianza istituzionalizzata. Da qui la sua incapacità di apportare un
qualunque contributo all’organizzazione dei rapporti interindividuali ed
intergruppali e il suo riassorbimento nella partecipazione politica [15].
[1] Cfr. D.Held - A.Mc Grew - D. Goldblatt
S. Perroton, “Che cos’è la globalizzazione”, Trieste, Asterios,
1999.
[2] Cfr. J. Brecher - T.
Costello, “Contro il capitale globale. Strategie di resistenza”, Milano,
Feltrinelli, 1996, pp. 28-29. Ma v. pure B. Amoroso, “L’apartheid globale.
Globalizzazione, marginalizzazione economica, destabilizzazione politica”,
Roma, Edizioni del Lavoro, 1999.
[3] Un’efficace
demistificazione si ha in D.Zolo, “Cosmopolis. La prospettiva del governo
mondiale”, Milano, Feltrinelli, 1995.
[4] Una risposta realistica a questa posizione, che nella
linea che va da Kant a Kelsen, annovera studiosi come Habermas e Bobbio, viene
sempre da D.Zolo, “I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico”,
Roma, Carocci, 1998.
[5] È naturale che una
tale massa d’urto finisca con l’essere una notevole forza politica. Analisi
e sondaggi hanno dimostrato che buona parte del successo elettorale dell’Ulivo
nelle elezioni politiche del 1996 deve essere attribuito all’impegno attivo
del volontariato, laico e cattolico. L’esperienza dimostra poi che il
variegato mondo del volontariato e dell’associazionismo costituisce forse il
vero collante dello schieramento di centrosinistra, il punto di confluenza dei
cattolici democratici e delle varie anime del socialismo.
[6] Cfr. C. Ranci - V. De Ambrogio - S. Pasquinelli, “Identità e
servizio. Il volontariato nella crisi del Welfare State”, Bologna, Il Mulino,
1991; M.G. Morchio, “Anziani e volontariato: una proposta di lettura”, in G.
Lazzarini, “Invecchiare in città”, Milano, Angeli, 1991.
[7] Sul narcisismo v. C. Lasch, “La
cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di
disillusioni collettive”, Milano, Bompiani, 1989; C. Lasch - C. Castoriadis,
“La cultura del narcisismo”, in AA.VV., “Il disagio della modernità”.
Milano, Linea d’Ombra, 1990.
[8] Sull’argomento
mi permetto di rinviare al mio “Debole come una quercia. Il neoliberismo di
sinistra”, Bari, Dedalo, 1999.
[9] Cfr. E. Micheli, Volate alto
(se potete), “Il Messaggero”, 21/1/1999.
[10] Y. Meny, “Istituzioni
e politica. Le democrazie: Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia”,
Rimini, Maggioli, 2.a ed., 1995, pp. 165-170.
[11] Cfr. A. Mabileau, “La
personnalisation di pouvoir et ses problèmes”, in AA.VV., “La
personnalisation du pouvoir”, Parigi, PUF, 1964; L. Cavalli, “Potere
oligarchico e potere personale nella democrazia”, Padova, Cedam, 1987.
[12] Cfr. M. Calise, “Il partito personale”,
Roma-Bari, Laterza, 2000, Parte Seconda: Il ritorno del capo.
[13] Cfr. F.Bianchi, “Vecchie
e nuove forme di comunicazione politica. Le competizioni elettorali del 1992 e
del 1996 a Firenze”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1998,
n.39, pp. 61-66. Ma sull’argomento v. ancora G. Grossi (a cura di), “Comunicare
politica”, Milano, Angeli, 1983; G. Pasquino (a cura di), “Mass media e
sistema politico”, Milano, Angeli, 1987; Idem, “La nuova politica”,
Roma-Bari, Laterza, 1992; M. Livolsi - U. Volli (a cura di), “La comunicazione
politica tra prima e seconda repubblica”, Milano, Angeli, 1995.
[14] Cfr., M.L. Gessaga, “Il dibattito
politico in televisione”, “Problemi dell’informazione”, 1991, n.2, p.
250.
[15] Cfr. M.
Magatti, Introduzione a “Per la società civile”, Milano, Angeli, 1997, pp.
12-16. Per un profilo storico-politico del concetto di società civile, v. A.
Seligman, “The idea of civil society”, New York, The Free Press, 1992 (tr.
it., Milano, 1993).