Convegno CESTES PROTEO-ACUNI
Riforma Berlinguer tra innovazione e subalternità economico-culturale
Estratti degli atti del convegno
Di seguito si riporta, per motivi legati alle disponibilità di spazio sulla rivista, soltanto una sintesi degli interventi del Prof. G.Alvaro e del Prof. F.Pitocco, in quanto rappresentando le relazioni introduttive al dibattito delineano i caratteri giuda e i contenuti che CESTES-PROTEO e l’ACUNI hanno, di comune intesa, voluto evidenziare come elementi di analisi critica e di riflessione sulla riforma proposta dal Ministro dell’Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica, L. Berlinguer. |
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Intervento del Prof. Pitocco
Il Ministro ci invita a discutere della relazione Martinotti.
Il governo non si è mai preoccupato di esplicitare, in un documento conciso, e
a questo fine costruito, i principi e gli obiettivi del suo progetto. E
certamente in assenza di un trasparente “disegno organico”, come si usa
dire, non è facile orientarsi dietro il suo frenetico attivismo sul terreno “formativo”.
E ciò che più imbarazza è che questa situazione non appare come casuale. Al
contrario: essa è voluta, ricercata, intenzionale. La relazione Martinotti lo
confessa apertamente: “non si è adottata la prospettiva di una “riforma
organica” o ordinamentale dell’intero sistema universitario. Si è invece
scelta la strada di una pluralità di interventi/strumenti parziali, da attivare
contestualmente, in funzione di obiettivi determinati, comunque riconducibili a
un disegno generale di riforma”.
Una scelta “pragmatica”, dunque, come si usa dire, o
forse solo inutilmente “furbesca”, visto che comunque si afferma esistere un
“disegno generale di riforma”: intenzionalmente esso non viene esplicitato,
viene tenuto nascosto. Perché non esporre alla luce del sole questo “disegno
generale”? Come discuterne se non viene portato a conoscenza di chi è
invitato a discuterne?
Comunque quella sua affermazione rivela un tatticismo che a
me non pare degno della lealtà intellettuale che dovrebbe caratterizzare il
costume accademico e la pratica politica di un paese democratico. Essa rivela la
volontà di sottrarsi ad un confronto sereno ed esplicito: si invita al
confronto ma si nascondono intenzionalmente gli elementi per discutere.
Quell’affermazione è grave anche per un altro motivo. Essa
fa riferimento a “interessi costituiti”, “celati dietro principi obsoleti”,
e che sarebbero addirittura all’origine delle “diffuse illegalità tollerate”
nelle nostre università. Di fronte a una tale realtà non mi sarei aspettato,
da una commissione ministeriale, una scelta puramente “pragmatica”.
Ho sempre pensato che la matrice di quelle difficoltà, e
delle diffuse illegalità che esse facilitano all’interno dell’Università,
derivino dalla vicinanza, troppo lascamente regolata e controllata, di parte
consistente del mondo accademico con il “mondo politico” e con il “sistema
produttivo”. L’interferenza della politica nella vita universitaria; la
tendenza a fare della carriera universitaria il trampolino per la carriera
politica, e viceversa; la tendenza a trascurare i doveri del lavoro
universitario per dedicarsi a più proficue attività professionali e private,
sono state, e sono, ampiamente diffuse nell’università italiana. Sono
certamente comportamenti illegittimi, e a volte forieri di altre e più gravi
illegalità. Ma sono stati finora considerati, appunto, come comportamenti
illegittimi, clandestini, condannabili.
Ora io temo vivamente che quei comportamenti, finora
giudicati illegittimi, possano diventare non solo legittimi, ma anche modelli da
imitare. Non vedo come questo si possa evitare con una riforma dell’università
che tende esplicitamente a instaurare un “rapporto organico” tra università
e sistema produttivo, e ciò sotto l’orientamento e il controllo diretto della
“programmazione” politica. Non è forse inquietante il “rapporto organico”
tra mondo produttivo, mondo politico e mondo universitario che sembra comparire
dietro certe inchieste di questi giorni in una università siciliana?
Per la prima volta nella storia della repubblica abbiamo
visto il parlamento spogliarsi delle sue prerogative per affidare deleghe al
governo in materia scolastica e universitaria, anche per gli aspetti più
delicati, costituzionalmente definiti. Nelle mani del governo e del ministro si
sono così concentrati poteri discrezionali quali mai in precedenza. Tanto ampi,
comunque, da svuotare di senso reale qualsiasi “autonomia”, e ciò proprio
nel momento in cui si dichiara di esaltare questa autonomia.
Ma i “segni dei tempi” sono quelli che sono. Il confuso
democraticismo che aveva regolato la vita universitaria degli ultimi trent’anni,
mescolato a caparbi corporativismi che hanno drammaticamente indebolito la
capacità di reazione dell’università, lascia ora il posto a un dirigismo e a
una discrezionalità ministeriale quantomeno imbarazzanti per chiunque abbia il
senso della dignità della “libertà accademica”. Ne sono testimonianza l’inquietudine,
e l’irritazione, con la quale molti professori hanno assistito ad alcuni atti
del ministro: designazione diretta di commissioni per la riforma universitaria
culturalmente omogenee e politicamente unilaterali, ciò che non consente il
confronto con la pluralità delle posizioni presenti sul terreno nel processo
stesso di formazione delle decisioni; la designazione diretta di organismi di
valutazione chiamati a valutare sulla base di criteri non sottoposti a
discussione preventiva, e dunque non condivisi; la designazione diretta di
commissioni per la valutazione dei progetti scientifici da finanziare, che
operano nella più totale opacità.
Il timore sui rischi che a me paiono minacciare la qualità
“politica” della vita universitaria, mi nasce infatti da quel “disegno
generale di riforma” che la relazione Martinotti non esplicita, ma che pur
dice esistere. E in realtà quel progetto esiste, ma inutilmente lo cerchereste
nei documenti tecnicamente dedicati, finora, alla riforma dell’università.
Esso vive di una vita per il momento ancora “nicodemitica”, ma che già
traluce qua e là, un po’ ovunque, e che si alimenta a una cultura animata da
un esprit de conquête inconsueto nella tradizione universitaria italiana e
europea. E’ un progetto serio, sostenuto da un impianto politico e sociale di
grande peso, e che è destinato a sconvolgere radicalmente la natura dell’Università.
E’ un progetto che potremmo definire sinteticamente “liberistico”,
che ha la sua matrice culturale in una concezione che considera la scienza e la
cultura “merci” come le altre merci, e che sta acquistando un consenso ampio
nello stesso mondo universitario e che viene alimentata da una serie cospicua di
articoli di giornali, di articoli di riviste sociologiche, di libri ponderosi e
pieni di tabelle. E’ questa concezione che spinge Martinotti ad auspicare la
futura istituzione di un “mercato accademico”. E’ in nome del “mercato
universitario” che oggi, diversamente dal passato, si auspica l’abolizione
del valore legale del titolo di studio, l’abolizione della titolarità della
cattedra, la “mobilità” dei professori: sarebbero le premesse
indispensabili per la sua istituzione.
Ma questo progetto, questo “disegno generale”, dove
cercarlo. Qua e là appunto, sbriciolato in mille documenti, in mille proposte,
in mille dichiarazioni. Non consegnato a nessun documento dedicato, esso è vivo
e diffusamente vitale. E tuttavia in realtà esiste davvero un documento che
più di ogni altro a me pare in grado di rivelarlo. E’ un documento totalmente
estraneo al mondo universitario, totalmente estraneo a qualsiasi preoccupazione
culturale e scientifica. Parlo dell’ “Accordo tra governo e parti sociali”
siglato nel settembre 1996 quale ripresa del “patto sul lavoro” del 1993.
Non a caso Martinotti vi fa riferimento, e non a caso, nel suo invito a
discutere del 23-1-1998, il ministro Berlinguer ha chiesto un “contributo di
osservazioni e di suggerimenti” alle “Organizzazioni Sindacali, alla
Confcommercio, alla Confagricoltura, alla Confindustria, alla Confartigianato,
alla CNA”.
E non ci si meravigli di questo indirizzario. In fondo, a ben
vedere, la richiesta rivolta alle università di discutere è solo pleonastica:
il ministro sa che quale che sia il parere del mondo universitario questa “riforma
si farà, e il governo andrà avanti, fino in fondo”, come egli dice. E ciò
perché l’università non è il soggetto, ma l’oggetto di questa riforma.
Sono infatti “le parti sociali”, come dice quel documento, che debbono avere
il “ruolo determinante” nella politica formativa del governo e dunque nella
riforma universitaria. Si tratta infatti di un progetto economico-sociale
elaborato all’interno della concertazione tra governo e parti sociali; un
progetto di “modernizzazione” del paese, come si usa dire, di cui la riforma
dell’università, e della scuola nel suo complesso, è solo un tassello.
Di fatto non si tratta di un progetto che miri all’ammodernamento
dell’università italiana, ma di un progetto di vera e propria dissoluzione
del modello di università che per due secoli ha fatto grande la cultura europea
e nella cui storia l’università italiana ha avuto un ruolo non secondario. Si
tratta di un progetto che non si pone il compito di riattivare le sorgenti
culturali e scientifiche dell’università italiana da troppi anni insabbiate e
offuscate. Il suo obiettivo fondamentale è trovare “la connessione” giusta,
come viene detto, “tra i temi relativi all’istruzione, alla formazione
professionale, alla ricerca scientifica e tecnologica”.
Schiacciare la cultura e la scienza sui “fabbisogni” del
sistema produttivo è una forma di totalitarismo culturale che annulla
totalmente l’autonomia che deve sostenere le diverse funzioni di cui una
società vive; quell’autonomia che è il risultato faticoso di secolari
battaglie per la “libertà”, il prodotto forse più prezioso della civiltà
liberale europea.
Ordinata esclusivamente alla formazione per il lavoro, è l’autonomia
della funzione culturale e scientifica dell’università che viene
cavallerescamente sacrificata. E tutto ciò non ha nulla di “europeo”, anche
se fosse esplicitamente imposta da un qualche governo europeo.
L’autonomia viene sacrificata nella sostanza, al di là di
ogni proclama, quando, nel tentativo di porre rimedio a problemi seri come
quello del “controllo” e della “verifica” dell’attività dei
professori, si propongono riforme dello stato giuridico che avviano la docenza
universitaria verso un insegnamento sempre più dequalificato e generico,
puramente quantitativo, che non è più necessariamente sostenuto da una
organica attività di ricerca. La separazione tra ricerca scientifica e
formazione appare minacciosa all’orizzonte.
E qui sta il nocciolo della questione. Ogni attenuazione del
rapporto tra ricerca e didattica conduce a conseguenze incalcolabili non solo
sulla qualità dell’Università. Non solo ha conseguenze sulla qualità della
ricerca e dell’insegnamento, come è avvenuto finora, per la condizione
residuale a cui molti docenti hanno ritenuto di riservare al loro impegno
universitario rispetto alla loro attività professionale privata, rispetto al
loro rapporto con il “mondo produttivo”. Essa può avere conseguenze più
gravi e più ampie sulla qualità della vita democratica e civile, nell’università
e nella società, quando venga affermata esplicitamente come principio di “innovazione”,
di “modernizzazione”, principio ispiratore della riforma.
La riduzione della ricerca scientifica a ricerca applicata,
non può che spingere la più gran parte della ricerca e dei ricercatori lontano
dall’Università; la residualità della ricerca di base, e il sostanziale
annientamento della ricerca umanistica (ormai neppure più considerata “ricerca
scientifica”), anche all’interno delle mura universitarie, impongono,
necessariamente, una rifondazione dello statuto della cultura e della scienza
nel contesto complessivo della società. Con una trasformazione di questo tipo
ciò che diventa residuale è nient’altro che l’autonomia della scienza e
della cultura. E con essa diventa necessariamente residuale l’autonomia dell’università;
e dunque anche della organizzazione democratica dell’università.
Io temo l’esercizio del potere delle maggioranze su questo
terreno: è la stessa libertà intellettuale che può essere messa in gioco, è
la discriminazione politica e culturale contro le minoranze gli individui che
può trovarvi legittimazione. Non vediamo già oggi questa discriminazione fin
troppo praticata nelle nostre università, in nome di scuole e di orientamenti
politici? E non è essa stata condannata dall’ “opinione pubblica” come
una degenerazione del costume universitario? Forse è opportuno ricordare che la
“titolarità della cattedra”, come la cosiddetta “inamovibilità” dei
professori, come che siano state di fatto esercitate, saranno anche “privilegi”,
ma sono soprattutto garanzie giuridiche inventate all’interno della tradizione
dello stato liberale, proprio per mettere al riparo da qualsiasi manomissione
politica e culturale il libero esercizio della ricerca e dell’insegnamento. E’
per questo che l’uno e l’altro sono, in Italia, costituzionalmente protetti,
affidati all’ordinamento dell’università pubblica, statale.
Schiacciata dal peso della formazione professionale a cui la
si vorrebbe essenzialmente ricondurre, l’università smarrisce la sua
identità, perde i suoi confini. Viene meno la sua stessa “necessità” o “legittimità”
sociale, si scioglie in un contesto “formativo” generico e generalizzato. Il
sistema dei crediti proposti dalla relazione Martinotti rivela la sua
funzionalità solo all’interno di una concezione di questo tipo, che in
termini culturali sembrerebbe ispirata dai principi della “educazione degli
adulti”. L’ “educazione degli adulti” deve essere “insegnata” nell’università,
ma non si “fa” nell’università: si pratica nella società,
quotidianamente, in ogni rapporto, in ogni contatto che gli individui instaurano
con il contesto sociale.
In un recentissimo convegno organizzato dalla LUISS
(intitolato, per l’appunto, “Università e alta formazione: autonomia al
servizio dello sviluppo” (la Confindustria non sente la contraddizione che
separa “autonomia” e “servizio” all’impresa) il nostro ministro, si
legge nei giornali, ha sentito il dovere di dichiarare che “la formazione si
fa ovunque”, ciò che è ovvio, ma dovrebbe essere anche ovvio che la
formazione universitaria si fa nell’università. Ma ciò che conta è che il
presidente Fossa ne ha tratto la sua legittima conseguenza: egli chiede alla
riforma dell’Università di “garantire le condizioni di un rapporto
strutturale tra imprese e atenei”: “L’impresa, egli ha detto, deve
candidarsi come luogo di formazione continua”, dove gli studenti possono
acquisire crediti da far valere all’interno dell’università. Fossa fa gli
interessi dell’azienda, il ministro dell’Università non fa meno bene quelli
della sua università. Ma forse sbaglia anche Fossa. E’ vero che la formazione
professionale si fa, efficacemente, solo sul luogo di lavoro, come sapevano
benissimo i nostri “obsoleti” artigiani; ma proprio per questo egli sbaglia
quando pensa di poter piegare una istituzione pubblica alle esigenze della
formazione professionale. Se non altro per ragioni di struttura delle relative
“temporalità”: l’istituzione è qualcosa che, appunto, “sta”, sta
stabile nel tempo; che evolve con una relativa lentezza, con una lentezza
comunque insopportabile per i ritmi delle trasformazioni economiche e
professionali. Fossa potrebbe forse chiedere, con qualche legittimità, che la
formazione professionale venga in parte finanziata dallo Stato presso le “aziende”;
ma meglio ancora farebbe a stimolare le aziende a “investire” in proprio,
molto più di quanto abitualmente facciano, nella “formazione”, a non
accontentarsi di “succhiare le ruote” della scuola statale. La LUISS, ad
esempio, ha tutto il diritto di vantare i suoi “buoni conti”. Ma il suo
orgoglio “privatistico”, mi si perdoni questa piccola battuta polemica,
sarebbe più onesto e giustificato se essa non dimenticasse che quei conti sono
“buoni” anche perché può imporre ai suoi studenti tasse incomparabilmente
superiori a quelle consentite alle università pubbliche; e perché le è
consentito di fruire abbondantemente, persino clandestinamente, del lavoro di
professori dell’università statale, naturalmente pagati dallo Stato, e
sottopagati dalla LUISS.
Voi capite le conseguenze per la natura dell’università:
la “ricerca di base” passa in secondo piano, a malapena tollerata, a tutto
vantaggio della star del momento, la “ricerca applicata”; la formazione
libera, fondata sull’acquisizione degli strumenti critici della metodologia
scientifica, tesa all’acquisizione della capacità di costruire in proprio
nuove conoscenze, di passare da una conoscenza all’altra, e dunque
propedeutica ad una alta qualificazione professionale, cede direttamente il
posto alla stessa formazione professionale, fondata sull’acquisizione di
conoscenze limitate, pre-confezionate, spendibili solo in circostanze e contesti
determinati. Ma in un mondo in rapidissima e perpetua trasformazione, una
formazione professionale di questo tipo ha un futuro? ha una qualche efficacia?
Essa si brucia in un lampo, e appare del tutto incapace a collocare gli
individui in un contesto “globale”, “mondiale”. Si pensa forse che basti
conoscere un po’ di inglese strumentale per “comunicare” con l’universo
mondo? O non è forse necessario che qualsiasi professionalità, per lo meno l’alta
professionalità, abbia una cultura adeguata a comprendere le realtà
straordinariamente diverse, storicamente diverse, dei vari contesti in cui deve
esercitare le sue conoscenze “tecniche”?
Senza cultura, senza formazione all’analisi scientifica,
ogni formazione professionale ha inevitabilmente il fiato corto. Costretta e
reinventarsi, giorno per giorno, ogni volta che lo sviluppo tecnologico imponga
le sue variazioni. Di fronte a questa rapidità dei “tempi moderni”, il
sistema formativo si trova di fronte a una scelta. Si può creare formazione
rapida, limitata, accorciando l’iter formativo, accontentandosi di una
formazione “usa e getta”. Ma bisogna allora mettere nel conto gli
inevitabili conflitti sociali, e la conseguente instabilità politica, che si
stagliano all’orizzonte; e aver coscienza che insieme a quella formazione si
“usano” e si “gettano” gli uomini che ne sono stati plasmati! Oppure si
sceglie una via più faticosa, una formazione mirata a costruire negli stessi
soggetti in formazione l’autonoma capacità, intellettuale e culturale, di
riciclarsi secondo i movimenti dello sviluppo: una via inizialmente più lenta,
ma che consente di recuperare tempo strada facendo, e di usufruire dell’esperienza
e della finezza professionale che si accumula nella permanenza. Quest’ultima
scelta, scelta sociale e culturale, che ha in se stessa le risorse della “flessibilità”,
può oggi essere sostenuta dall’università europea, meglio, forse, che dall’Università
americana; e può essere davvero un elemento importante nella competizione
internazionale, se per competizione si intende sfida tra diversi, ricerca del
“prodotto” diverso, e non semplice omologazione e imitazione. Per essa la
nostra università è pronta, può contare sul patrimonio di una tradizione
culturale lunga, incomparabile, e capace di alimentare una creatività di tutto
rispetto; basta riformarla questa università, restituire respiro alle sue
risorse culturali. Per una competitività che pretenda invece di fondarsi sulla
imitazione, destinata a rivelarsi prima o poi per quello che davvero è,
subalternità culturale e economica, e non competizione, le università italiane
e europee non possono che essere “obsolete”. Per questa scelta bisognerebbe
semplicemente rinunciare alla nostra università; bisognerebbe inventare
qualcosa di totalmente nuovo, e che comunque non potrebbe più chiamarsi,
legittimamente, università.
Ma voi capite anche la conseguenza più generale, più grave,
che incide sul corpo della società, sulla vita civile: la scienza che non è
più un “valore in sé”, che ha bisogno di legittimarsi con risultati
pratici immediati, economicamente misurabili giorno per giorno; la scienza che
non è più “autonoma”, disinteressata, accanto alla funzione conoscitiva
perde l’altra sua funzione sociale essenziale. La scienza che non ha più in
se stessa la propria legge, è una scienza che perde quel ruolo di “principio
di verità” che da oltre due secoli è a fondamento della convivenza civile
nella società laica moderna, che legittima il discrimine tra il giusto e l’ingiusto,
che legittima il diritto contro la forza.
Un “rapporto strutturale” con le imprese industriali e
finanziarie; un rapporto non mediato, non filtrato da un sistema di garanzie che
salvaguardino l’autonomia e l’indipendenza della ricerca scientifica
universitaria, minaccia alle radici il ruolo culturale e sociale della
cosiddetta comunità scientifica: il solo sospetto del suo coinvolgimento negli
interessi privati delle aziende, la priva, legittimamente, agli occhi della
società, del suo “prestigio”, della sua funzione di garante della verità,
di sorgente del “criterio di verità”.
Ciò che insomma qui vorrei sottolineare è che una riforma
dell’università, e della scuola, dovrebbe fondarsi su una maggiore
sollecitazione della sensibilità storica di tutti; dovrebbe fondarsi sulla
consapevolezza che si sta mettendo mano a una materia “storica” per
eccellenza, che trascina al proprio interno contenuti sociali e culturali che si
sono stratificati nel tempo e che sostengono la vita del presente, dove assumono
un valore globale, una funzione per certi aspetti antropologica. A chi ha senso
della storia non può sfuggire che con una proposta di questo tenore si incidono
le radici di una civiltà intellettuale, della civiltà intellettuale europea. E
non mi par poco!
L’Associazione per l’Autonomia della Cultura e dell’Università
(ACUNI) - presieduta dal Prof.G.Tecce - e il Centro Studi Trasformazioni
Economico-Sociali (CESTES-PROTEO) - diretto dal Prof. L.Vasapollo -, aderiscono
alla manifestazione nazionale della scuola del 30 maggio 1998, a Roma, indetta
dal Sindacalismo di Base, a difesa della scuola pubblica e dell’alto valore
sociale e collettivo della formazione e della cultura.
Le proposte finora avanzate dal Governo in tema di riforma
della scuola superiore e di riforma dell’Università (espresse, queste ultime,
dal documento Martinotti) sembrano muoversi in direzione di un sistema formativo
e culturale subalterno agli interessi di natura privatistica.Riforma basata su
una filosofia che contrattualizza e privatizza il rapporto tra Ateneo e
studente, mirando ad abbattere nei fatti il valore legale del titolo di studio e
subordinando la ricerca a criteri funzionali al sistema d’impresa.
In questa prospettiva si minano le fondamenta dell’autonomia
didattica dell’Università e il principio fondamentale che la cultura sia un
bene collettivo, essenziale per la crescita della società civile e della
democrazia.
Aderiamo, quindi, a questa manifestazione sottolineando l’impegno
dell’ACUNI e di CESTES-PROTEO a difendere il ruolo pubblico della scuola, l’autonomia
dell’Università, della ricerca e della didattica, per una cultura del
cambiamento.
Roma, 28 maggio 1998