Riforma dei mercati finanziari e crisi industriale permanente
Federico Merola
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Abbiamo detto la volta scorsa, e ci sembra giusto ribadire,
che un tema come quello della vigilanza dovrebbe avere una valenza di ampio
respiro parlamentare, alla stregua delle norme di carattere costituzionale. L’augurio
è che eventuali revisioni dell’attuale assetto dei controlli siano realizzate
con larghe intese. Non si può pensare di cambiare sistema o modalità di
vigilanza ogni volta che cambia un Governo.
4. La tutela del risparmiatore
Oltre ad una vigilanza potenziata e razionalizzata, il
disegno di legge in Parlamento propone anche nuove forme di tutela diretta del
risparmio, attraverso limitazioni all’operatività delle banche e nuovi e più
efficaci strumenti di ricorso a disposizione dei cittadini. In particolare, sono
quattro le possibili aree di intervento in materia:
• Specifiche limitazioni all’emissione di obbligazioni in
presenza di conflitti di interesse (è previsto un periodo di detenzione
obbligatoria dei titoli a carico delle banche di almeno un anno, la garanzia di
solvibilità in certe condizioni e un potere di decisione in materia di
quotazione dei titoli attribuita all’Amef);
• Più efficaci strumenti di difesa dei risparmiatori
rispetto ad eventuali comportamenti scorretti da parte di emittenti e
intermediari finanziari (in particolare con l’introduzione dell’azione
giudiziaria collettiva o Class Action);
• L’introduzione di un fondo speciale di indennizzo e
garanzia a beneficio dei risparmiatori eventualmente incappati in gravi ed ampi
dissesti finanziari;
• L’approvazione rapida della direttiva UE in materia di
abusi di mercato (“market abuse”).
Salvo sull’ultimo di questi quattro punti, per altro
ampiamente dovuto, le principali associazioni di categoria si sono rivelate
apertamente contrarie a tutti gli altri provvedimenti, giudicandoli poco
efficaci per i risparmiatori e troppo penalizzanti per banche e imprese.
Per quanto ci riguarda, invece, si tratta di provvedimenti da
tempo invocati che in molti casi, come ad esempio nell’ipotesi di Class Action
(che in breve consiste nella possibilità da parte di un risparmiatore di far
valere le proprie ragioni in sede di giudizio unitamente agli altri o anche
separatamente, ma beneficiando di sentenze relativa a casi simili), si
limiterebbero semplicemente a colmare un’inspiegabile lacuna con mercati più
evoluti del nostro.
In particolare, affrontare in modo responsabile i rischi
posti da operazioni effettuate in conflitto di interesse ci sembra una priorità
indispensabile per la crescita di un paese che sta già pagando cara, e ai
massimi livelli di governo, la propria tradizionale indifferenza al problema.
Ricordiamo in proposito come il giudice americano Elliot Spitzer abbia portato
le principali banche del suo paese a rimborsare 1,4 miliardi di dollari ai
piccoli risparmiatori truffati grazie ad una legge del 1921, il Martin Act, che
inverte l’onere della prova spostandolo dai cittadini o dal procuratore alle
banche. In pratica il procuratore non deve dimostrare la volontà degli imputati
di frodare il pubblico: è sufficiente produrre in aula i documenti con i quali
si prova che si è verificato uno scambio di “favori” tra soggetti che
dovrebbero agire come controparti. In pratica, basta dimostrare la presenza di
conflitti di interesse.
5. Il falso in bilancio
Imbarazzante a dirsi, ma l’ipotesi di reintrodurre il reato
penale di falso in bilancio è forse la proposta che raccoglie il più ampio
consenso da parte delle associazioni di categoria, Abi e Confindustria in primo
luogo. Così uno dei primi e più urgenti provvedimenti adottati dal Governo in
carica, in evidente conflitto di interessi con la posizione processuale dell’attuale
Presidente del Consiglio, viene di fatto considerato a gran voce un passo
indietro per il corretto ed efficace funzionamento di un mercato finanziario
moderno. Sarà anche vero che il falso in bilancio perpetrato da Parmalat si è
verificato prima di questa modifica normativa, ma certamente non è la
depenalizzazione del reato la strada più adatta a scoraggiare pratiche
truffaldine di questo tipo. Peraltro, in controtendenza rispetto a quanto è
stato fatto in altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti d’America che hanno
elevato le pene fino ad oltre 20 anni di carcere, riconoscendo la potenziale
gravità del reato per i suoi diffusi effetti negativi a livello di sistema.
6. La corporate governance e il problema degli incroci
azionari tra banche e imprese
Il dibattito forse più deludente però è stato quello che
ha riguardato le regole di governo societario (corporate governance). Su
questo fronte i temi di particolare rilevanza sono principalmente tre:
• Le forme di tutela delle minoranze nell’ambito di
società ad ampia diffusione azionaria;
• La disciplina delle società estere, soprattutto se
operanti in paradisi fiscali;
• Le soluzioni volte a contenere i conflitti di interessi
nell’intreccio tra finanza e industria.
Sul primo aspetto, l’unica rilevante forma di tutela delle
minoranze che sembra emergere dal dibattito parlamentare è quella della nomina
di un numero adeguato di consiglieri indipendenti nei CdA delle società
quotate. A parte il fatto che si tratta di una soluzione in qualche modo già
prevista e attuata da molte di queste società, che ratifica più un’inutile
situazione di fatto piuttosto che introdurre effettivi cambiamenti, l’esperienza
storica dimostra che l’indipendenza è un requisito difficile da conseguire
allorché la nomina degli amministratori avviene da parte dei soci di
maggioranza della società.
Con riferimento al delicato aspetto delle società estere,
possiamo dire che la giusta diffidenza per le società offshore va sicuramente
affrontata in un contesto di coordinamento internazionale. Farlo nell’ambito
di un provvedimento nazionale potrebbe essere inefficace e facilmente
aggirabile.
Più grave e delicato è, per molti versi, il terzo ed ultimo
aspetto. Quello cioè che affrontando gli intrecci societari tra banche e
imprese, arrivando ad uno snodo fondamentale della struttura “consociativa”
del capitalismo italiano.
Com’è noto, nell’ambito del processo di privatizzazione
e trasformazione del sistema bancario italiano - che ha avuto luogo nel corso
degli anni ‘90 - è stato consentito alle imprese non finanziarie di entrare
nel capitale delle banche. In base all’articolo 19, Capo III, del Testo Unico
delle leggi in materia Bancaria e Creditizia (di seguito “TUB”):
• La Banca d’Italia autorizza preventivamente l’acquisizione
di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando comporta una
partecipazione superiore al 5% del capitale della banca e, indipendentemente da
tale limite, quando comporta il controllo della banca stessa. L’autorizzazione
è rilasciata quando ricorrono le condizioni atte a garantire una gestione sana
e prudente della banca;
• I soggetti che svolgono in misura rilevante attività d’impresa
in settori non bancari né finanziari non possono essere autorizzati ad
acquisire azioni o quote che comportano una partecipazione superiore al 15 per
cento del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di
voto o, comunque, il controllo della banca stessa;
• La Banca d’Italia nega o revoca l’autorizzazione
in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivi durevolmente,
in capo ai soggetti indicati nel comma precedente, una rilevante concentrazione
di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della
banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa.
La possibilità di partecipazione delle imprese non
finanziarie al capitale delle banche è stata quindi variamente limitata. Se,
per molti versi può essere prematuro mettere in discussione la possibilità di
questa partecipazione, non si può tuttavia disconoscere, anche alla luce delle
prime esperienze, che essa presenta numerosi inconvenienti.
Innanzitutto l’esperienza empirica dimostra che
difficilmente le imprese partecipano al capitale sociale delle banche per
svilupparne l’attività e la redditività. Il loro interesse strategico è
invece funzionale al proprio sviluppo industriale, attraverso l’ingresso in
quelli che in Italia rappresentano importanti centri di potere. In questo modo
le imprese si garantiscono il finanziamento della propria attività tipica al di
fuori di un’effettiva selezione meritocratica da parte della banca.
Una circostanza già grave di per se ma che evidentemente si
arricchisce di ulteriori preoccupanti contenuti in caso di crisi aziendale dell’impresa
partecipante o se si fa riferimento non solo al tipico finanziamento bancario,
quanto piuttosto all’intera attività di intermediazione finanziaria svolta
dalla banca stessa, che include collocamenti azionari e obbligazionari. O,
ancora, se si fa riferimento anche all’attività di gestione collettiva del
risparmio che, in Italia, è ancora fortemente concentrata nell’ambito dei
gruppi bancari.
La possibilità che la banca possa trasferire al “mercato”
buona parte del rischio di esposizione - direttamente o attraverso i propri
fondi comuni di investimento - è evidente, come anche la grave inefficienza
macroeconomica che ne deriva in termini di selezione delle imprese sulla base
del relativo merito di credito. Il tutto, peraltro, a fronte di commissioni
negoziate “in casa” e quindi di una redditività che può trasferirsi sul
mercato generando un aumento dei costi di intermediazione.
Per non parlare, poi, del potere e del vantaggio competitivo
che un imprenditore viene ad assumere rispetto ai suoi concorrenti non
rappresentati nel Cda di alcuna banca.
Di fronte all’evidenza di questa situazione, occorre
valutare da un lato l’efficacia delle attuali forme di tutela del risparmio e
della stabilità delle banche e dall’altro la possibilità di introdurre
correttivi realistici che, senza penalizzare lo sviluppo futuro del settore,
possano anzi rafforzarne l’efficienza, la solidità e la credibilità.
Attualmente le principali forme di tutela previste dal TUB e dalla normativa
correlata, emanata soprattutto dalla Banca d’Italia, risiedono soprattutto sui
seguenti principi:
• Impossibilità del controllo;
• Requisiti di professionalità ed onorabilità;
• Limiti quantitativi ai finanziamenti;
• Vigilanza della Banca d’Italia sul merito della
condotta aziendale.
Queste forme di tutela hanno mostrato la loro inefficacia ed
anzi, la loro pericolosità, nella misura in cui possono lasciar credere di
essere sufficienti senza invece esserlo effettivamente.
La mancanza di un controllo totale della banca non impedisce
alla società partecipante di esercitare una sostanziale influenza su eventuali
decisioni che la riguardano. Né si può pensare che l’uscita dell’imprenditore
dal Cda nel momento in cui viene presa una decisione che lo riguarda possa
seriamente costituire una forma di tutela.
I requisiti di professionalità sono stati di fatto applicati
con una valenza “universale”, nel senso che un elevato grado di
responsabilità nella gestione di impresa è stata ritenuta titolo equivalente
ai cinque anni di esperienza diretta in materia “bancaria, finanziaria o
assicurativa” richiesti per la partecipazione al Cda di una banca.
In quanto ai limiti quantitativi ai finanziamenti, per le
imprese non finanziarie partecipanti al capitale delle banche valgono quelli
previsti per qualsiasi altro cliente. Non sono stati introdotti vincoli più
restrittivi da parte del Cicr o dalla stessa Banca d’Italia.
Mantenendo un approccio al tempo stesso realista, gradualista
e meno dirigista possibile, si può escludere nel breve e medio periodo l’ipotesi
estrema di vietare la partecipazione di società non finanziarie nel capitale
delle banche. Però, a fronte di queste considerazioni, occorre quantomeno
verificare se sono possibili altre soluzioni che, pur essendo in qualche modo
sub-ottimali, possano sostanzialmente mettere sotto controllo pericoli
degenerativi e evitare che la partecipazione di imprese non finanziarie al
capitale delle banche avvenga in contraddizione con gli obiettivi macroeconomici
di sviluppo del sistema. Da questo punto di vista può essere utile e necessaria
l’introduzione di maggiori e più efficaci forme di tutela nonché specifiche
forme di vigilanza, tali da impedire o penalizzare quelle partecipazioni che non
fossero in linea con lo sviluppo strategico della banca. Limitatamente ai
finanziamenti diretti della banca al proprio socio industriale di minoranza,
alcune ipotesi da approfondire potrebbero essere le seguenti:
• Obblighi specifici di comunicazione alle autorità e di
trasparenza verso i mercati con riferimento alle operazioni effettuate dalla
banca con i propri soci non finanziari (direttamente e indirettamente), all’esposizione
complessiva e alle principali condizioni applicate;
• Maggiori vincoli di corporate governance in caso
di operazioni di questo tipo, come ad esempio una maggioranza di consiglieri
indipendenti nel Cda o anche in Comitati di controllo (caratterizzati da
requisiti di professionalità più stringenti e selettivi rispetto a quelli
attuali e procedimenti di nomina credibili) o maggioranze qualificate (se non
addirittura l’unanimità di consensi) per l’approvazione degli affidamenti
ai soci industriali della banca e tutte le operazioni a loro riferibili
(collocamenti azionari e obbligazionari, ecc.);
• Limiti quantitativi agli affidamenti diretti e anche alle
operazioni complessive che una banca può effettuare (soprattutto verso i propri
clienti retail) a beneficio dei propri soci-clienti-imprenditori;
• Maggiore impatto dei finanziamenti a soci non finanziari
sui coefficienti patrimoniali delle banche, subordinatamente all’eventuale
compatibilità di questa disposizione con gli accordi generali conclusi a
livello internazionale.
Resterebbe ancora irrisolto il principale problema distorsivo
che deriva dalla partecipazione di soci non finanziari al capitale delle banche:
quello di una forte asimmetria concorrenziale sul mercato delle imprese, con
soggetti che non solo potrebbero avere più facilità di accesso al credito a
prescindere dalla rispettiva redditività, ma che addirittura possono
controllare e determinare l’accesso al credito di quelli che, di volta in
volta, sono i propri concorrenti.
Evidentemente, la soluzione di questo problema passerebbe
esclusivamente per il divieto di partecipazione al capitale delle banche da
parte soci industriali o, ad esempio, per soluzioni intermedie come l’obbligo
di assumere una posizione subordinata come quella degli azionisti di risparmio o
altre figure del cosiddetto “quasi-equity”.
Da un punto di vista generale, non meno intricato e
pernicioso è il caso opposto, cioè quello di partecipazione delle banche al
capitale di aziende non finanziarie. In Italia, sono previsti limiti
estremamente più stringenti di quelli autorizzati dalla normativa UE, per cui
quando questa partecipazione non è fatta nell’ambito di logiche di Private
Equity, solitamente deriva da casi di crisi aziendale. Nel nostro paese,
insomma, la partecipazione delle banche al capitale sociale delle imprese
avviene per lo più come conseguenza della conversione in azioni di prestiti che
l’azienda non è in grado di rimborsare.
A fronte di ciò, non si possono però ignorare i rischi di
pericolose inefficienze sistemiche che, anche al cospetto dei benefici di un
salvataggio industriale, dovrebbero essere accuratamente evitate. In
particolare, in un contesto di banca universale, l’imparzialità di una banca
nell’erogare finanziamenti ad una partecipata industriale, soprattutto se in
crisi, è fortemente minacciata dall’obiettivo di evitare perdite. Il che,
notoriamente, potrebbe produrne delle altre oppure essere scaricata, attraverso
altri meccanismi, sul piccolo risparmiatore. Anche in questo caso, insomma, la
banca rischia di perdere quella funzione nobile di selezione degli affidamenti
in base al relativo merito di credito degli affidati.
La situazione potrebbe essere persino più grave di quella
relativa alla partecipazione delle imprese nel capitale delle banche. Perché in
questo caso il pericolo concreto è che la banca possa scaricare grandi rischi
sul mercato dei piccoli risparmiatori. Eloquenti, in proposito, sono alcuni
recenti fatti emersi alle cronache del nostro paese.
Ancora una volta sarebbe necessario introdurre provvedimenti
di salvaguardia volti ad evitare effetti degenerativi. Ma il Parlamento su
questo particolare aspetto non sembra avviato ad approvare provvedimenti
particolarmente innovativi. Le associazioni di categoria, Abi e Confindustria in
particolare, si sono già schierate a difesa dello status quo.
Per capire meglio il perché, è a questo punto
indispensabile allargare il ragionamento alla struttura del capitalismo italiano
e alle sue attuali caratteristiche. Un argomento del quale ci occuperemo sul
prossimo numero di Proteo.