Contro il Welfare dei miserabili
Luciano Vasapollo
9 ottobre 1999
Assemblea-dibattito in tema di flessibilità, nuovo mercato del lavoro e riforma del Welfare State
Relazione Introduttiva |
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Si incrementano così le vere e proprie forme di povertà
ed emarginazione assoluta, la miseria di un sempre crescente numero di persone
che non riescono ad accedere neppure ai livelli minimi di sopravvivenza, ad
indispensabili cure mediche e ospedaliere, ad una pur minima dignitosa qualità
complessiva della vita. Ecco cos’è il “Welfare dei miserabili”, degli
esclusi, il passaggio dall’universalismo dei diritti alle garanzie caritatevoli
per i miserabili.
5. Un Welfare della socializzazione della ricchezza per
un modello di sviluppo delle socio-compatibilità solidali
Si sviluppa nel modo visto in precedenza un sistema economico
nel quale la spesa pubblica non è indirizzata ad un reale rafforzamento infrastrutturale
del Paese e ad una efficiente produzione di servizi pubblici, anzi si realizza
una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto
il sistema di protezione sociale a favore delle fasce di cittadini più deboli,
fasce che diventano sempre più grandi andando a comprendere anche quegli
strati di società che fino a pochi anni fa erano considerate protette (lavoratori
del pubblico impiego, artigiani e commercianti), creando quindi nuove povertà,
nuovi bisogni, ampliando in sostanza l’area dell’emarginazione sociale complessiva,
accrescendo, appunto, i “miserabili”, che non essendo riconosciuti in quanto
tali, solo perché, ad esempio, possono vantare un piccolo reddito da lavoro
precario e intermittente, non avranno neppure riconosciuti i diritti minimi
di cittadinanza.
E’, invece, possibile voltare pagina definitivamente nelle
scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni
tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente
dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività
che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi
di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del
lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro,
alla redistribuzione degli aumenti di produttività al fattore lavoro, e quindi
ai disoccupati, e non solo ai profitti come è avvenuto in particolare in questi
ultimi venti anni.
La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con
l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni. Diventa allora
strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un
diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche
siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento
dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del
tempoliberato,la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione
dell’accumulazione, della ricchezza complessivamente prodotta.
Non si tratta, quindi, di riproporre semplici forme di intervento
esclusivamente sul fronte della distribuzione del reddito ma rientrare con
nuovi strumenti nel conflitto capitale-lavoro, che di fatto è più duro e
diversificato di un tempo, a partire dalle nuove soggettualità del conflitto
sociale riorganizzando l’unità di interessi del mondo del lavoro , la
solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data
a partire dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare
un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo,
e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio che rivendichi
la redistribuzione sociale della ricchezza incidendo profondamente sui
processi di accumulazione capitalistica, a partire da una diversa
politica fiscale redistributiva che finalmente colpisca e non favorisca
in maniera indiscriminata il fattore capitale.
In questi ultimi venti anni il rallentamento dello sviluppo
economico che ha causato una elevata crescita dei livelli di disoccupazione,
ha fatto sì che si sia incrementato a dismisura il livello della pressione fiscale.
Le conseguenze di questo incremento sono state avvertite soprattutto dai lavoratori
in quanto non è stato possibile o non si è voluto cercare di aumentare il prelievo
fiscale sul capitale, adducendo il fatto che i capitali sono sempre più
mobili e convergono verso paesi nei quali il costo del lavoro è molto basso.
Il sistema fiscale italiano insiste nell’assoluta persistenza di protezione
dell’evasione e dell’elusione e di continui e massicci trasferimenti, agevolazioni
ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni mediamente oltre
i due terzi delle società` di capitale denunciano un IRPEG negativa, e più del
25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di sotto dei 20 milioni;
senza considerare che la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi denunciano
redditi inferiori ai loro dipendenti; l’evasione fiscale e contributiva tocca
ormai i 350.000 miliardi annui. All’opposto invece i lavoratori dipendenti,
i pensionati e i redditi da famiglia in genere sono giunti a carichi contributivi
ormai insostenibili. Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo
in grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto
e una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione; invertendo
così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei trasferimenti di reddito
allo Stato sempre più aumentare a scapito delle famiglie e a vantaggio delle
imprese.
Va allora posta come perno centrale delle politiche economiche
una lotta seria all’evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le possibilità
di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche monetariste restrittive,
le politiche neo-liberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilita e flessibilità,
di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola carità cristiana, ma
piuttosto realizzando una incisiva politica delle entrate che finalmente punti
ad una vera riduzione dell’evasione fiscale ed una seria tassazione dei capitali.
Le risorse finanziarie ci sono e sono disponibili per il rafforzamento
di un Welfare State non più e non solo della semplice cittadinanza, ma di uno
Stato Sociale che, oltre a redistribuire reddito, socializzi l’accumulazione
del capitale, distribuisca cioè ricchezza derivante da incrementi di produttività
che sono andati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora
tali risorse finanziarie devono essere prelevate attraverso una seria e decisa
tassazione dei capitali nelle sue diverse forme: tassazione organica ed
uniforme dei capital gains, dei capitali finanziari e speculativi, degli investimenti
diretti esteri, delle transazioni all’estero dei capitali finanziari. E’ soltanto
per questo che abbiamo aderito, e siamo stati tra i primi promotori di una campagna
di iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la
cosiddetta Tobin Tax, oggi condivisa strumentalmente anche da
alcuni governi conservatori.
Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino
a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, caricando
gli stessi oneri gravanti sulla forza lavoro che va a sostituire, effettuare
degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente
anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della
popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza
sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo
in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo
vantaggio del capitale.
Non si riesce a capire che, anche in un’ottica riformista e
assolutamente minimale, i nuovi indirizzi di politica economica devono essere
assolutamente finalizzati alla lotta alla disoccupazione strutturale
creando nuove possibilità di lavoro ad utilità sociale e collettiva, realizzando
produzioni non necessariamente mercantili, allargando le possibilità
del lavoro femminile, del lavoro agli immigrati, del lavoro ai giovani; di mettere
in atto una seria politica di riduzione generalizzata, sia in senso settoriale
sia in senso terrioriale, dell’orario di lavoro a parità di salario, che riguardi
anche fortemente il terziario pubblico e privato, le piccole e micro imprese,
di riconoscere il “Reddito Sociale Minimo”, ai disoccupati, ai precari,
ai pensionati al minimo.
La capacità di analisi scientifica e di iniziativa politica
deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla società
dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante
degli equilibri, controllore, ma almeno da subito uno Stato interventista
e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace
di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di
un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più
moderno sistema della qualità della vita.
E’ in ambito di questo programma minimo per il lavoro
e le eco-socio-compatibilità solidali che vanno recuperati in termini redistributivi
gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare
in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare
nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e
di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, assumendo da
subito tutti i LSU nella Pubblica Amministrazione, con pieni diritti e pieno
stipendio, creando “posti fissi” tanto disprezzati da D’Alema, rafforzando nel
contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico
determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire
nella spesa sociale anche il Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire
ai disoccupati, ai precari, ai marginali.
Sulla assunzione immediata dei LSU nella Pubblica Amministrazione
e sull’istituzione del Reddito Sociale Minimo, il CESTES si è fatto promotore
di iniziative di lotta, di riflessione, di leggi appositamente proposte e depositate
insieme alle RdB, all’Unione Popolare e a tante altre strutture dell’associazionismo
di base. Ciò anche perché pensiamo che al centro dell’iniziativa politica
e sociale debbano ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere,
le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe,
cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato
che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato
il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della
ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti
della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione,
come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.
E’ per questi motivi che il CESTES e la rivista PROTEO intendono
promuovere, a partire da questa assemblea, momenti di riflessione, di mobilitazione
costituendo già da subito un coordinamento nazionale formato da forze
sindacali, sociali, politiche e intellettuali che vogliono battersi contro le
linee di politica economica di questo Governo, “contro il Welfare dei miserabili”,
appunto, per poter decidere insieme percorsi capaci di fissare regole di controtendenza
rispetto alla logica del Profit State, per l’affermazione di un nuovo Welfare
basato sull’uso sociale della ricchezza prodotta.
Invitiamo, pertanto, tutti a farci pervenire al più presto
agli indirizzi del CESTES le adesioni a tale comitato che dovrà effettuare il
suo prossimo incontro entro questo mese di ottobre, per decidere insieme le
iniziative culturali e di mobilitazione da intraprendere.