1. Una stagione complessa un attacco in profondità
Una ricognizione delle questioni che riguardano il diritto
del lavoro non può sottrarsi oggi dai temi dell’attualità politica. Mancano
infatti meno di due mesi al 21 maggio, ovvero alla data fissata dal governo per
lo svolgimento della prova referendaria del 2000.
Il millennio doveva aprirsi con un numero molto più cospicuo
di quesiti abrogativi sottoposti all’attenzione - ed alla richiesta di
approvazione - del corpo elettorale.
Come sappiamo la Corte Costituzionale ha ridotto il numero
dei quesiti, che sono quindi ridotti a sette.
Va ricordato che la Federazione delle Rappresentanze
Sindacali di Base, l’Associazione Progetto Diritti ed il C.R.E.D. si sono
costituiti in giudizio - avanti la Corte Costituzionale - per chiedere di
dichiarare inammissibili i referendum sulla liberalizzazione “tout court”
dei contratti di lavoro a tempo determinato ed a tempo parziale oltre che quello
sull’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.
Si trattava di ventuno referendum su questioni diverse e che
investivano diverse sfere della nostra vita politica e sociale. Ricordarli
separatamente non è inutile perché il loro insieme evidenzia una filosofia
globale che non può dirsi certo confinata ai soli promotori (ovvero nella
maggior parte dei casi la sola compagine di Pannella e Bonino, tutto sommato una
piccola pattuglia di incursori, sia pur premiata dal clamoroso - ma non si può
dire quanto duraturo - successo elettorale in occasione del rinnovo del
Parlamento Europeo del 1999).
2) Si è partiti da ventuno referendum
Il primo gruppo di referendum, come è noto, investiva la
materia del lavoro e dei diritti dei lavoratori. La filosofia che muoveva (e
muove) i promotori - sostenuti da un gruppo nutrito di imprenditori - è quella
della necessità di liberare il lavoro (anzi la gestione del lavoro da parte
delle imprese) da quella serie di “lacci e lacciuoli” che irrigidendo
il rapporto con la manodopera impediscono il decollo delle imprese, e quindi la
ripresa dell’occupazione. Da un lato l’attacco ai diritti classici dei
lavoratori, dall’altro l’attenzione rivolta al superamento della
concertazione con le tradizionali confederazioni sindacali, concertazione che ha
caratterizzato la politica economica, industriale ed occupazionale in gran parte
degli anni novanta (dalla finanziaria “lacrime e sangue” del governo
Amato all’ingresso nella moneta unica del governo Prodi). La designazione di D’Amato
alla guida della Confindustria appare alla maggior parte degli analisti rivolta
al perseguimento di una analoga strategia (oltre ad esprimere un mutato rapporto
di forza tra i diversi settori del padronato).
Flessibilità in ingresso ed in uscita, attaccando la
rigidità del lavoro, guardando alla diversificazione sempre maggiore delle
tipologie dei contratti di contratti di lavoro e mirando alla fluidità nella
risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, questa la filosofia dei
promotori.
3) L’art.18 dello statuto dei lavoratori
In questa strategia spiccava - anche per l’alto valore
simbolico - il referendum lasciato in piedi dalla Corte Costituzionale, quello
mirante all’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Il testo dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n.300
(“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della
libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento”) - così come modificato dalla legge 11 maggio 1990 n. 108 -
testualmente recita: “Ferma restando l’esperibilità delle procedure
previste dall’art.7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 [ovvero la
procedura per il tentativo di conciliazione prevista dai contratti collettivi o
da esperire presso l’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione] il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il
licenziamento ai sensi dell’art.2 della predetta legge [dell’inefficacia
del licenziamento parleremo in seguito] annulla il licenziamento intimato
senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma
della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore,
che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel
quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di
quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore
agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si
applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che
nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle
imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di quindici
dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non
raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non
imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di
lavoro.
Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di
cui al primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di
formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato
parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale
proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario
previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il
coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea
diretta ed in linea collaterale.
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma
non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o
creditizie.
Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il
datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il
licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità
stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione; in ogni
caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità
di retribuzione globale di fatto.
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così
come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di
chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di
lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di
fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito
del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro
trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell’indennità
di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto nello spirare
dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma -
provvisoriamente esecutiva.
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art.22
[ovvero dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali], su
istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questo aderisce o
conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito,
può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli
elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore
nel posto di lavoro.
[Seguono nei due commi successivi alcune disposizioni di
carattere processuale, relative al giudizio di impugnazione del licenziamento
del dirigente della r.s.a.].
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’art.22,
il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero
all’ordinanza [...] è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al
pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo
della retribuzione dovuta al lavoratore”.
Parleremo in seguito del contesto normativo - ovvero dell’insieme
della disciplina sui licenziamenti - in cui questa norma fondamentale si
inserisce.