1. L’integrazione capitalista e la rottura proletaria
Negli anni ’70, sorge la “scuola francese della
regolazione”, alla ricerca di una soluzione positiva alla “crisi del
fordismo” (Aglietta, 1976). In effetti, i regolazionisti partono, soprattutto,
dal liberalismo centrista keynesiano (Boyer, 1986), le cui regole statali e
contrattuali pretendono di far funzionare la società come un carosello. Ciò
esige, in particolare, un interventismo tecnicamente neutrale ed esterno alle
classi sociali, che illustri bene l’aspetto ideologico del feticismo dello
Stato (Farias, 1988; 2000). E, in generale, consideri gli altri attori politici
(destra e sinistra), le altre scienze economiche (classiche e neoclassiche) e
gli altri attori sociali (capitalisti e stipendiati) come parte dei poli tra i
quali la regolazione si viene a frapporre. I regolazionisti vennero influenzati
anche dal pensiero critico del dopoguerra, che mirava ad attualizzare la
questione della relazione tra teoria e pratica (Marcuse, 1981), tra operai e
capitale (Tronti, 1977) o tra struttura e storia (Balibar et alii, 1977). Nel
1959, un autore marxista fece la seguente osservazione paradigmatica:
“Come ogni metodo scientifico serio, lo strutturalismo non
è una chiave universale, ma un metodo di lavoro che richiede lunghe e pazienti
ricerche empiriche e che deve, nel corso di queste, essere perfezionato e
preparato. Esiste, senza dubbio, una dialettica delle relazioni tra le ricerche
empiriche e le idee generali; intanto non bisogna scegliere con tanta facilità
la priorità delle prime e la loro indispensabile funzione in ogni lavoro
scientifico degno di questo nome.” (Goldmann, 1980: 117).
La scuola della regolazione ha imparato la lezione da certi
critici maestri-pensatori che non credevano molto più sensato utilizzare un’“analisi
concreta” (marxista) nell’esame della “situazione concreta” (taylorista,
keynesiana e fordista), con l’esperienza “gloriosa” dell’espansione del
capitalismo tardivo (1945-1975). Così, la diversità delle forme di relazione
tra il capitalista ed il salariato dovrebbe essere appresa attraverso un “polimorfismo
della ragione e dell’immaginazione” proprio dell’“idealismo
epistemologico” che andava di moda per quella congiuntura (Vadée, 1975). Per
quanto riguarda la lezione dello strutturalismo, sarebbe giusto “combinare”
il marxismo con la “pratica scientifica più recente” (cibernetica,
biologia, termodinamica, teoria dei sistemi, etc.) [1] per capire, nella modernità
attuale, “la condizione fra le strutture” (Godelier in Blackburn et al.,
1982: 330), come la forza che regola i meccanismi fisici e simbolici che gli
sono propri. Per la corrente dello storicismo, “nessuna socializzazione, né
lo stesso conflitto, è esclusivamente una forma di lotta, perché allo stesso
tempo è una forma di unione.” (Freund in Simmel, 1992: 13). Oltre a ciò, le
relazioni del sistema economico attuale non si sviluppano dando vita alle stesse
contraddizioni e, pertanto, le relazioni corrispondenti non assumono gli stessi
profili (Coriat, in Vincent et alii, 1994: 101). Così, le analisi in termini di
regolazione si ispiravano a modelli di riproduzione (come quello di Bourdieu
& Paseron, 1970), dove l’intenzione critica non era esente, perciò
includevano una revisione del marxismo alla luce dei nuovi movimenti sociali,
generalmente e tatticamente negando l’“analisi concreta”, a favore di una
teoria sulla “relazione della politica con la trasformazione delle “condizioni”
o delle “strutture” storicamente diverse, ma non meno determinanti, dell’economia
e non meno esterne all’istituzione politica” (Balibar, 1997: 29).
I regolazionisti della fase depressiva del tardo capitalismo
(a partire dal 1975) sono abbastanza vicini al pensiero gramsciano nell’utilizzare
le categorie storiche e, pertanto, nell’evidenziare la specificità delle
forme sociali della modernità in atto. Perciò, essendo storicisti, la
affrontano anche come se la “situazione concreta” abbia negato l’“analisi
concreta”. Sottolineano troppo la diversità storica e nazionale dei regimi di
accentramento e delle funzioni dello Stato al centro e alla periferia. Studiano,
cioè, il ruolo dello Stato senza aver definito la sua natura, o la sua funzione
senza aver determinato la sua forma. Siccome promuovono la “storicizzazione”
delle categorie e il fine di tutte fa riferimento all’universale, eliminano l’analisi
generale della forma-Stato dalla problematica dello Stato. Per cui,
“[...] i diversi Stati dei diversi paesi civilizzati,
nonostante le molteplici diversità delle loro forme, hanno tutti in comune il
fatto che riposano sul terreno della società borghese moderna, più o meno
sviluppata dal punto di vista capitalista. Ed è questo che fa sì che certi
tratti siano loro comuni.” (Marx, 1975: 26)
In breve, escludendo l’elemento generale, i regolazionisti
non elaborano il sillogismo di Stato, che viene considerato semplicemente come
un essere sociale particolare e singolare. Generalmente, da ciò il risultato è
un’analisi dal punto di vista scientifico delle esperienze politiche e,
precisamente, un avvicinamento empirista la cui premessa è la negazione di
tutte le leggi generali del movimento dello Stato in seno ad una totalità
concreta, complessa e contraddittoria.
La lezione dei maestri-pensatori strutturalisti è stata
appresa adottando la tesi marxista della supremazia dell’infrastruttura,
svuotata, quindi, dalla realtà delle relazioni di produzione (Godelier, 1984.
11 e 34), della lotta di classe e, pertanto, della dialettica tra soggetto ed
oggetto. Ora, “nella misura in cui ci avviciniamo alla struttura, non dando
valore alla genesi, la storia e la funzione, per non parlare della stessa
attività del soggetto, è evidente che si entra in conflitto con le tendenze
centrali del pensiero dialettico” (Piaget, 1979: 97). Inoltre, Balibar ha di
recente affrontato questo problema, non partendo dallo strutturalismo o dallo
storicismo, ma partendo dal dialogo marxista:
“Marx pensa ad una politica la cui verità deve essere
cercata, non nella propria coscienza di sé o nell’attività costituente, ma
nella relazione che mantiene con condizioni ed oggetti che formano la sua “materia”
e costituiscono, essa stessa, come un’attività materiale. Ma questa posizione
non ha niente a che vedere con una liquidazione dell’autonomia dei soggetti
della politica [...] In verità, accade il contrario: [...] la pratica politica
marxista è una trasformazione interna delle condizioni, che produce come suo
risultato (necessariamente, dal momento in cui viene effettuata, nella “lotta”)
la necessità di libertà, l’autonomia del popolo (designato come
proletariato) [...]. Le condizioni della politica sono caratterizzate come “base”
o “struttura economica” della storia.” (Balibar, 1997: 28).
Alcuni marxisti, siano strutturalisti o gramscisti, affermano
all’unisono che, poiché lo Stato ha dei vincoli organici con il capitale in
generale e con numerosi capitali, bisogna fare il passaggio dalla critica dell’economia
politica alla critica della politica (Balibar et alii, 1979). Tuttavia, i
regolazionisti ignorano questi vincoli e questo passaggio, per esaminare
soprattutto i fini sistematici dello Stato, in seno ai regimi di accentramento,
tanto nella sua variabilità temporale e spaziale, quanto nella dinamica delle
sue trasformazioni. Così, l’unica interpretazione del passato che gli
interessa, di fatto, risiede nella tesi dell’integrazione dei sindacati e dei
partiti operai ufficiali alle istituzioni dello Stato-provvidenza, avendo per
motivazione l’impossibilità, attualmente, di autonomia politica per il
movimento operaio. Dovrebbe essere poi considerata un’altra ipotesi:
“L’integrazione [...] non è solamente il risultato di un
miglior tenore di vita e di un certo numero di conquiste sindacali, ma anche di
una partecipazione attiva e quotidiana al processo di produzione e,
implicitamente, al funzionamento della società capitalista. Il carattere
oppositivo -culturalmente ed ideologicamente contestatorio- di questa
integrazione mi sembra che si spieghi -e qui l’analisi geniale di Marx resta
completamente valida- con il fatto che gli operai, non avendo niente da vendere
all’infuori della loro forza di lavorare -e questo vuol dire, in ultima
analisi, essi stessi-, dovrebbero necessariamente essere, sebbene a diversi
livelli, ribelli alla ricollocazione, all’adattamento al mercato e alle
trasformazioni dei beni di mercato.” (Goldmann, 1975: 177).
Invece di imparare i “limiti dell’integrazione”,
supponendo che “una diminuzione dell’”abbondanza” regnante può ridurre
a niente il consenso attuale” (Mattick, 1972: 198), e sfruttare questo lato
anti-sistemico, i regolazionisti credono nella necessità concreta di un’azione
statale razionale e volontaria -segnata da un certo paternalismo neo-gramscista
(Vincent, 1998)- per difendere l’operaio massificato, come nell’utopia
astratta di creare il socialismo per mezzo del compromesso di classe [2]. Non si apprenda quindi la lezione di uno dei suoi
maestri-pensatori “operaista”, come:
“Il “Piano” del capitale nasce prima di tutto dalla
necessità, per esso stesso, di far funzionare, all’interno del capitale
sociale, la classe operaia in quanto tale [...] La socializzazione crescente
della relazione di produzione capitalista non porta con sé la società
socialista, ma solamente un potere operaio crescente all’interno del sistema
capitalista.” (Tronti, 1977: 72).
Per i regolazionisti, senza il progresso sociale storicamente
determinato con le caratteristiche del fordismo, non c’è progresso materiale
nei regimi di accumulazione realmente esistenti, la cui crescita dipenderebbe
dall’equilibrio tra la produzione ed il consumo di massa, che ha come premessa
l’ampliamento ed il miglioramento tanto dello Stato sociale quanto delle
negoziazioni collettive. Non hanno quindi appreso un’altra lezione di quel
maestro-pensatore italiano, cioè:
“[...] una rottura rivoluzionaria del sistema capitalista
si può produrre su diversi livelli dello sviluppo capitalista. Non si può
aspettare che la storia del capitale abbia raggiunto la conclusione perché si
possa iniziare ad organizzare il processo che porta alla sua dissoluzione”
(Idem: 79).
La partecipazione dei membri della classe operaia ufficiale e
dei suoi intellettuali organici nel compromesso storico della social-democrazia
conferma la pertinenza del seguente avviso: “quanto più una classe dominante
può accogliere nelle sue fila gli uomini più importanti della classe dominata,
più la sua oppressione è solida e pericolosa.” (Marx, 1976: 555, L.III.). In
questo senso, allora, Gramsci mai si è messo contro a Il Capitale. In base al
bilancio di quel compromesso storico, l’albero della conquista di una certa
intromissione del lavoro vivo nelle costituzioni occidentali non deve nascondere
la foresta della sconfitta sul piano politico. Si tratta soprattutto di una
sconfitta per il “sostituzionismo” della social-democrazia e dello
stalinismo, cioè:
“[...] la sostituzione della classe lavoratrice
indipendente come agente del mutamento e della trasformazione sociale con una
determinata entità: partito, Stato, governo, parlamento e così via. Tutti
questi sono utili ed, alle volte, sono strumenti indispensabili per l’emancipazione
della classe operaia. Perciò devono restare subordinati ai movimenti reali dell’auto-emancipazione.”
(Mandel, 1995: 6).
Radicata nel sostituzionismo, l’ideologia regolazionista
diviene prassi attraverso i consiglieri dei partiti “social-democratici o
comunisti” che
“[...] potrebbero aver successo solo nel quadro della
democrazia parlamentare integrandosi in una competizione politica regolata tra
grandi organizzazioni burocratizzate. Di fatto si sono adattati a democrazie
parlamentari con componenti plebiscitarie, dove hanno assunto un ruolo eminente,
direttamente o indirettamente, nell’inserimento del Walfare State, o dello
Stato- previdenza. Sicuramente si sono trovati a dover affrontare importanti e
significative lotte sociali e politiche, nella misura in cui queste modificavano
le relazioni tra le forze e gli equilibri politici, ma quelle lotte termineranno
sempre con compromessi e riaggiustamenti egemonici e non con radicali mutamenti
politici e sociali.” (Vincent, 1998: 127) [3].
Invece di tornare a Gramsci [4], bisogna constatare che l’elemento
elementare del pensiero di Gramsci sul blocco storico (Gramsci, 1987; Buci-
Glucksmann, 1975) si trova negato in questa visione positivista del progresso,
supponendo, in maniera implicita, che la lotta di classe non assume mai, in seno
alla modernità in vigore, il suo ruolo di motrice e che è arrivata al finale
della storia [5]. Questa visione regolazionista viene criticata in base ad una
duplice prospettiva teorica: come crescita lineare che va verso la diminuzione o
verso l’aumento, della continuità o della ripetizione; come crescita
equilibrata, in una sintesi che esclude una polarità come produzione e
circolazione, in termini di società politica e di società civile. Al
contrario, si afferma l’esistenza di una dialettica dell’essere sociale i
cui elementi non avanzano su tutti i fronti, né sono vantaggiosi su tutta la
linea. Inoltre, la visione positivista che viene qui criticata riconosce una
permanente rivalità, tra conflitti ed ambivalenze; tuttavia, vengono
considerati passibili di regolazione, che suppone la scelta spontanea di un
miglior compromesso di classe attraverso un ”sì” o un “no”. Pertanto,
questa visione si unisce all’aleatorio strutturalismo, che, non essendo
concernente allo Stato, rompe anche con la tentazione di un’analisi dell’essenza,
ma senza mai rinunciare all’intenzione di riscattare le invariabili (Bourdieu,
1994: 107) [6].
L’esperienza iniziata nella seconda metà degli anni ’70
pone la ragione eclettica del regolazionismo (neopositivista, neo-operaio,
neo-storicista e neo-strutturalista) di fronte ad una realtà paradossale,
proposta nei seguenti termini:
“Nel momento del suo apparente trionfo, la democrazia
parlamentare, con le sue componenti plebiscitarie e con lo Stato sociale, entra
in crisi. Soffre precisamente l’indebolimento dello Stato nazionale nel quadro
della globalizzazione e delle difficoltà incontrate dalle politiche di
protezione sociale in un periodo di rallentamento economico.” (Vincent, 1998:
127).
2. Il bilanciamento dei conflitti e la mediazione delle
contraddizioni
La ragione positivista dello storicismo strutturalista della
scuola della regolazione è la negazione della logica dialettica del
materialismo storico gramscista. Secondo l’esperienza attuale della
globalizzazione, poichè il primo è critico e riformista, mantiene le vecchie
dicotomie spaziali; poiché il secondo è critico e rivoluzionario, costruisce
il nuovo ponte tra oriente ed occidente, tra il nord ed il sud, etc. Più
specificatamente, il post- fordismo, le nuove correlazioni tra le forze sociali
(in un quadro di competitività, flessibilità e globalizzazione) e la crisi
dello Stato sociale sono esperienze che confermano la visione gramscista
riguardo “la relazione che si instaura tra lo sviluppo del capitalismo durante
la fase imperialista e la costituzione di robuste “riserve” borghesi della
“società civile”.” (Catone, in Burgio & Santucci, 1999: 65) [7]. Così,
“Invece di cercare di comprendere le nuove forme di
divisione del mondo, le frontiere attuali di radicalizzazione della storia, le
figure contemporanee dello spirito di scissione e, successivamente, la linea e
gli sdoppiamenti che intervengono nella fattezza dell’essere umano, viene
acquisita passivamente l’idea dominante di un mondo, di una storia e di un
uomo riuniti e appena divenuti più complessi.” (Tronti, 1998: 95).
L’era post-moderna trae, inoltre, fatti storici abbastanza
duri in modo da far esaurire le energie utopistiche dei regolazionisti,
favorendo la banalità e la perplessità, ogni volta sempre più presenti nel
loro approccio tecnico - negando quindi il ruolo motrice della lotta di classe
nella modernità in atto. Effettivamente, a causa dei mutamenti dello Stato, del
lavoro e della democrazia, essi credono che questo ruolo venga assunto dalla
tecnica. All’interno delle attività umane che obbediscono ad un progetto e ad
un’idea (cioè, con intenti e strumenti), prevalgono quelle che hanno uno
sviluppo materiale, il progresso sociale ed il progresso tecnico come oggetto,
anche se quelle in relazione con quest’ultimo dovrebbero avere il primato. È
stata elaborata (Farias, 2000: 90) la seguente figura per esprimere il
positivismo che “concilia l’ordine ed il progresso” (Comte, 1987), in seno
alla “società salariata” (Aglietta e Brender, 1984), cioè:
In particolare questa logica positivista a tecnicista non
riesce ad esprimere il modo secondo il quale la “società salariale”
verrebbe ad essere superata, inoltre non ha come fondamento le sue
contraddizioni, ignorando il fatto che “tutti i sistemi storici (in realtà,
tutti i sistemi) hanno contraddizioni interne, ragion per cui hanno vita
limitata.” (Wallerstein, 1997: 69). Generalmente, i regolazionisti usano una
dicotomia strutturalista, inizialmente al fine di separare, dividere e
classificare il progresso come materiale, sociale e tecnico; successivamente,
per individuare in esso differenze formali e gli elementi, i punti comuni e
quelli di contrasto, quelli di unione ed i conflitti; infine, per esaminare
tutte queste questioni in termini di regolazione, dando loro una risposta
positiva o negativa (Lefebvre, 1975: 22). È in questa visione prismatica che i
regolazionisti della politica considerano la società capitalista come un
sistema dicotomico formato da elementi di lotta e di unione, con la supremazia
di quest’ultima. Ciò presuppone una regolazione, una forma cioè secondo la
quale l’unità si imponga attraverso la lotta tra gli elementi come
intermediari (Lipietz, 1979: 36). È in questo prisma che vengono esaminate
anche le relazioni tra i tipi di Stato, di famiglia e il tasso di crescita
capitalista. Effettivamente, analizzano, da un lato, i progressi attinenti al
campo economico, domestico e politico; dall’altro lato, ciò che rende
possibile la coesistenza di questi ordini, cioè: il sistema della regolazione
monetaria, giuridico ed ideologico (Thèret, in Boyer et alii, 1995: 191). Così
il sistema della regolazione è un “habitus” (Bourdieu, 1979) o un sistema
di norme e di regole adeguato al regime di accumulazione in vigore; o meglio, il
sistema delle regolazioni corrisponde ad un progresso unitario, stabile e
compatibile della produzione e della circolazione, dell’accumulazione e del
consumo (Lipietz, 1985: 15- 16). Del resto, quando spiega la sua metodologia,
Lipietz orienta questo stesso scetticismo regolazionista contro le leggi che
ordinano il modo di produzione capitalista e l’imperialismo. Paradossalmente,
Lipietz (1985: 20) considera lo stesso Lenin (1982) come un precursore della
teoria della regolazione. Intanto, lo storicismo regolazionista di Lipietz è,
sotto certi aspetti, semplicemente una deformazione “radical-riformista”
(nel senso habermanista del termine) del metodo storico usato da Lenin.
[1] In particolare, la “scienza
che esplora le possibilità limite e la regolazione interna che è permessa ad
un sistema, che sia fisiologico, economico, etc, malgrado un campo determinato
di variazione nelle sue condizioni interne ed esterne di funzionamento.”
(Goldberg in Blackburn et alli, 1982: 331).
[2] Uno dei
principali motivi che hanno diretto la ricerca svolta da Gramsci nei Quaderni
dal Carcere fu, precisamente, “l’esistenza di una “società civile”
strutturata e complessa, dotata di solidi “quadri sociali”, di intellettuali
organici della borghesia, in grado di organizzare il consenso, di dirigere le
masse, per mantenere il dominio borghese [...]” (Catone in Burgio &
Santucci, 1999: 65).
[3] Sull’influenza riformista della
scuola regolazionista nel Partito Socialista Francese, si veda Vincent et alii
(1994); e nel Partito Comunista Italiano, si veda Vacca (1997).
[4] Si tratta di una pretensione
soprattutto dell’approccio regolazionista politicista. Cf. Lipietz, in Vincent
et alii (1994); Théret (1992).
[5] Dal punto di vista politico ed ideologico, quelli che difendono la
tesi del fine della storia assumono una posizione reazionaria e conservatrice.
Dal punto di vista teorico, non indicano il passaggio logico di tutta la
concezione del mondo alla morale che gli è adeguata, di tutta la contemplazione
all’azione nel senso di trasformare lo stato delle cose esistente (Gramsci,
1987. 54-55).
[6] Coriat (in Vincent et alii, 1994: 101 e ss) esorcizzò, comunque,
la ricerca delle invariabili.
[7] Si veda
anche Gill (1994).